A qualche mese dalle elezioni politiche tunisine, vinte dai laici di Nidaa Tunès, abbiamo avuto l’opportunità di fare un punto sulla situazione del paese con la prof.ssa Chiara Sebastiani, docente dell’Università di Bologna in seno al dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, autrice del libro “Una città una rivoluzione. Tunisi e la riconquista dello spazio pubblico“ e grande conoscitrice della Tunisia. Ne è venuta fuori una testimonianza molto ricca, stimolante e che offre una visione zoomata, quindi più reale e autentica, del contesto tunisino e non solo.
Siamo a pochi mesi dalle prime elezioni libere e democratiche dell’era post Ben Ali, che scenari si stanno delineando in Tunisia?
Le prime elezioni libere e democratiche che si sono tenute in Tunisia sono state quelle dell’ottobre 2011 dalle quali è uscita l’Assemblea Nazionale Costituente (ANC): in quel momento si è ricostituita una forma di governo basato sulla legittimità legale del voto e si è chiusa la prima fase della transizione, quella retta da organismi che erano espressione diretta del popolo. Con la seconda tornata elettorale dell’ottobre 2014, è stata eletta l’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo (ARP), cioè il parlamento monocamerale previsto dalla nuova Costituzione nel frattempo adottata (febbraio 2014) e a seguire il nuovo Presidente della Repubblica nella persona di Béji Caid Essebsi, leader del partito Nidaa Tunès che oggi detiene la maggioranza dei seggi nell’ARP.
Si è conclusa così la terza fase della transizione (la seconda potendosi individuare con l’adozione della Costituzione e le dimissioni del governo Laarayedh a maggioranza islamista) e si è andati, dopo qualche mese di acceso di dibattito, alla formazione di quello che potremmo chiamare un governo di coalizione “asimmetrico” nel senso che la composizione del governo non riflette quella della maggioranza parlamentare che lo sostiene. Tale asimmetria deriva dalla sottorappresentanza del partito islamista Ennhdha (secondo partito in parlamento ma rappresentato solo da un ministro e tre sottosegretari) a fronte sia del partito maggioritario sia di altre formazioni minori entrate nella coalizione. Un risultato sofferto da tutte le parti – Nidaa Tunès deve rispondere alla componente laico-modernista del suo elettorato che l’accusa di tradimento, Ennahdha ad una base che l’accusa di essere troppo accomodante – ma che al momento tiene. I problemi che ora si pongono sono tre: a) la grande instabilità del contesto regionale e le continue minacce sulle frontiere rappresentano fragilità che potrebbero sollecitare chi ha tuttora interesse a destablizzare il paese; b) le tendenze disgregative che si stanno manifestando all’interno di Nidaa Tunès, eterogenea coalizione elettorale piuttosto che vero partito e i cui dissidi interni riguardano da un lato il compromesso con Ennahdha, dall’altro la sparitzione dei posti al proprio interno; c) l’esplosione incontrollata di particolarismi e corporativismi all’interno della piccola e media borghesia del settore pubblico su cui si reggeva il regime di Ben Ali e che ha sostegno del potente sindacato UGTT. Tutto questo rende difficile mettere mano agli interventi economici urgenti che sono la vera priorità.
All’indomani dell’esito elettorale e dopo l’elezione del Presidente della Repubblica tunisina, alcuni hanno detto e scritto che l’epoca della primavera araba si è conclusa e si è conclusa nel peggiore dei modi e cioè con il ritorno ai visi della vecchia politica. Cosa ne pensa?
Il termine “primavera araba” nasce in Europa e riflette proiezioni e aspirazioni dell’occidente assai più che dei popoli insorti. Il processo che si è messo in moto in Tunisia nella data simbolica del 14 gennaio è appena agli inzi ed è difficile pensare che in uno solo dei paesi coinvolti le cose torneranno come prima. Ciò vale perfino per l’Egitto, dove il processo di restaurazione è stato più rapido, deciso e spietato e dove tuttavia vi sono focolai di rivolta diffusi e permanenti. Vale del pari per la Libia da cui potrebbe uscire un governo di unità nazionale che nel modello tunisino trova qualche ispirazione e per l’Iraq dove i Curdi stanno instaurando un embrione di stato autonomo.
In quanto alla Tunisia, se è vero che oggi siedono al potere esponenti della vecchia politica, sono tuttavia affiancati da figure nuove (quelli che ai tempi della vecchia politica stavano in galera o in esilio) e inquadrati da norme e limitazioni che proprio per la loro matrice rivoluzionaria hanno buone possibilità di essere difese dal popolo stesso nel caso di tentazioni autoritarie. Non che la partita sia chiusa ma sostenere che si è semplicemente tornati al passato è del tutto infondato. Stupisce che tale posizione sia largamente espressa da intellettuali di sinistra: sono loro che dalla rivoluzione hanno finora guadagnato più di tutti, poiché la libertà di espressione e in generale le libertà civili sono per il momento il principale e consolidato acquis della rivoluzione.
Sebbene alcuni indicatori economici siano a propensione positiva, probabilmente anche grazie al calo del prezzo del petrolio, la situazione sociale ed economica del paese non è certo rassicurante. S’intravede una concreta volontà e un’azione politica capaci di apportare dei veri miglioramenti per i tunisini?
L’attuale governo avrebbe tutte le intenzioni di mettere le mani a interventi urgenti per l’economia. Il primo ministro Essid ha chiesto ai suoi ministri da oltre un mese di individuare una serie di priorità. Il vero problema che oggi si evidenzia è che vent’anni di dittatura – e cinquant’anni di autoritarismo – hanno disabituato un popolo che pur si era battuto per la propria indipendenza a pensare al bene comune. C’è un sistema neocorporativo e un pubblico impiego ipertrofico, nel quale il vecchio partito benalista RCD mantiene le sue ramificazioni: le ondate di scioperi selvaggi e di rivendicazioni salariali sono all’ordine del giorno. Si distinguono in modo particolare gli insegnanti che non hanno esitato in queste settimane a ricorrere al blocco degli scrutini, mentre gli scioperi nel settore dei trasporti bloccano l’industria dei fosfati e quelli dei netturbini mettono in fuga i turisti.
In questa situazione le elites politiche e intellettuali hanno gravi responsabilità: hanno tollerato per tre anni questo stato di cose perché serviva a mettere in difficoltà un governo islamista; quando poi Ennahdha è stata sconfitta alle urne nessuno ha avuto il coraggio di spiegare alla popolazione che non era possibile mettere al contempo un freno all’inflazione e quindi al continuo rincaro delle derrate alimentari e al contempo distribuire aumenti salariali ai dipendenti pubblici. Non hanno brillato per civismo nemmeno gli imprenditori tunisini restii a investire, e non ha brillato per lungimiranza l’occidente che avrebbe dovuto essere più generoso nei suoi aiuti, condizionandoli eventualmente alla riconciliazione nazionale anziché alla sconfitta di una delle parti in gioco.
La Tunisia può ergersi a paese-modello e quindi influenzare positivamente il resto della regione araba? Può abbattere quel muro mediatico e quella credenza sociale, di stampo occidentale, che considerano incompatibili l’islam e la democrazia?
Sì, indubbiamente la Tunisia può avere questo ruolo ma le sarà molto difficile, da sola, abbattere credenze e pregiudizi sul rapporto tra islam e democrazia. La miope politica occidentale, dopo aver per anni sostenuto Ben Ali, ha sperato di sostituirlo con un “fronte laico” che in Tunisia non esiste. I pregiudizi sono stati alimentati in modo interessato in particolare dalla Francia, principale responsabile del crollo de turismo in Tunisia poiché proprio da lì veniva il flusso maggiore, e i cui media hanno servito ad alimentare vere e proprie leggende metropolitane (ne ho raccolto personalmente alcune, come quella di una “polizia del buoncostume” (police des moeurs) che controllerebbe l’abbigliamento delle turiste straniere all’aeroporto di Tunisi…) Altrove il pregiudizio è alimentato da ignoranza (in Italia, ad esempio, dove il contatto diretto con i musulmani è assai più recente che in Francia) e talvolta anche dalla pigrizia dei nostri media.
Ma vi sono anche problemi sul fronte interno: i giornalisti odierni sono stati anch’essi diseducati da vent’anni di una dittatura che fondava la propria legittimazione internazionale sul suo ruolo di contenimento dell’islam politico. E i media sono imbevuti dell’ideologia coloniale francese, quella che teorizzava la missione civilizzatrice della Francia a fronte dell’oscurantismo musulmano. Una cultura radicata non si cambia in un giorno. L’impressione tuttavia è che in Europa la Tunisia, a lungo trascurata perché paese piccolo e senza risorse strategiche, stia suscitando crescente attenzione. Ci s’incomincia probabilmente a rendere conto che se la cosiddetta “primavera araba” è inziata lì non è forse un caso, e che da lì potrebbero anche venire soluzioni innovative per l’intera regione attualmente sconvolta.
Inevitabile chiedere, che ruolo pensa potrà giocare in un futuro prossimo la Tunisia con l’avvento dello Stato Islamico? E come potrà svilupparsi la situazione in Libia?
L’avvento dello stato islamico (ISIS) ha paradossalmente “sdoganato” una serie di gruppi finora bollati come “terroristi” (il PKK), “integralisti” (Fajr libico) o “stati canaglia” e sta portando la “comunità internazionale” a perseguire una strategia di conciliazione tra forze diverse in funzione anti-Isis, dopo essere intervenuta per indirizzare le rivolte arabe in funzione di regime changes a lei graditi. Ciò che sta succedendo in Libia da questo punto di vista è significativo. La Tunisia può rappresentare un modello e svolgere un ruolo di mediazione ma va ricordato che anche all’interno del paese, e non solo in Occidente, vi sono forze che preferirebbero una vittoria sul campo del generale Haftar (con l’aiuto dell’Egitto).
Italia e Tunisia, che futuro attende alla politica estera di questi paesi? Con la nuova governance tunisina, c’è da attendersi qualcosa in merito alla questione dei flussi migratori?
La politica estera non può ridursi ai flussi migratori che sono la conseguenza di un assetto mondiale e regionale. In particolare bisogna rendersi conto che il processo d’integrazione europea, con gli accordi di Schengen, ha costruito un muro invisibile in mezzo al Mediterraneo, ostruendo i flussi naturali della popolazione verso l’Europa. In Tunisia parlano tutti con amarezza della nuova politica dei visti che rende difficile anche fare quindici giorni di vacanza in Europa a chi potrebbe permetterselo. Questo blocco ha avuto effetti devastanti sui giovani che si trovano nell’impossibilità di uscire dal paese e vedono i loro coetanei girare il mondo. Non stupisce che una parte della naturale spinta giovanile alla mobilità abbia prodotto un flusso jihadista verso oriente e un flusso migratorio verso il nord di cui l’Italia è l’accesso.
L’unico modo per ridurre i flussi migratori clandestini è quello di aumentare i flussi legali. Prima di aprire campi profughi in Tunisia sarebbe opportuno rendere più accoglienti i nostri consolati nei riguardi di chi – come migrante o rifugiato – vorrebbe entrare nel nostro paese. Se la gente potesse rivolgersi ad autorità consolari amichevoli ed accoglienti, e non burocratiche e diffidenti, forse almeno qualcuno passerebbe dal consolato anziché dagli scafisti. E se offrissimo maggiori opportunità ai giovani di fare anche soggiorni brevi, o soggiorni per motivi di studio (l’italiano si studia tantissimo in Tunisia) eviteremmo forse alcune morti di giovani che desideravano soltanto “voir un peu de pays” (vedere un poco il mondo, come diceva un ragazzo a Lampedusa). Tutte queste sono assai più responsabilità – e opportunità – dell’Italia che della Tunisia.
Al di là degli aspetti più strettamente politici o geopolitici, che eredità lascia la famosa “rivoluzione”, la rivoluzione dei gelsomini, in Tunisia? E altrove?
Sarei tentata di rispondere, in modo un po’ retorico, citando i versi del poeta nazionale Qasim Abu Chabbi che fanno parte dell’inno nazionale tunisino: “Se un giorno il popolo sceglie la vita/Il destino sarà costretto ad inchinarsi.” Più che lasciare una eredità, la rivoluzione – che non fu mai dei gelsomini ma del pane, della libertà e della dignità – ha aperto una svolta storica le cui ripercussioni si estenderanno nel lungo periodo. Possiamo scommettere – anche se ciò riguarderà le future generazioni – che il 14 gennaio 2011 figurerà come data simbolica nei libri di storia, più o meno come il 14 luglio.
E’ autrice del libro “Una città una rivoluzione. Tunisi e la riconquista dello spazio pubblico”. Di cosa tratta la sua opera e che messaggio mira a passare?
Il mio libro tratta dello spazio pubblico, cioè dei luoghi urbani che sono aperti a tutti e dove si discute di politica anche tra estranei. Nelle città tunisine e nordafricane in generale questi luoghi sono le strade, i souk, i caffè, gli hammam, le moschee e le botteghe dei barbieri; possono anche essere luoghi dove si svolgono dibattiti organizzati: club, teatri, librerie. In Tunisia questi luoghi erano considerati talmente pericolosi dal regime da essere sotto costante sorveglianza della polizia e degli informatori del regime. Erano finti spazi pubblici: ci si guardava bene dal toccare qualunque cosa avesse a che fare con la politica o la critica al regime. La rivoluzione ha cambiato questi spazi nel giro di una notte: la gente si è riappropriata degli spazi pubblici e della libertà di parola con una naturalezza che resta ancora la migliore garanzia per il futuro.
Quando è scoppiata la rivoluzione stavo lavorando sugli spazi pubblici in città del nord e del sud del mondo, in chiave comparata: ho avuto la fortuna di poter seguire sul campo il processo di riappropriazione e di mettere a confronto il paesaggio urbano sotto la dittatura (conoscevo già bene la Tunisia) con quello dopo la rivoluzione. Non mi ero proposta di far passare un messaggio specifico ma ho trovato molto significative le parole di una delle mie intervistate, femminista storica: “Quando vado su Internet sono pessimista, quando scendo in strada sono ottimista”. Penso sia importante che la gente continui a scendere in strada e parlare con sconosciuti, come nei giorni della rivoluzione quando “tutti parlavano con tutti”.