Siria, 15 Marzo 2011. Non un giorno come un altro. Anche in Siria giunge una eco, per quanto distorta e deforme, di quella più ampia sollevazione che la stampa occidentale ha subito battezzato come “Primavera Araba”. Questa, a cavallo tra il 2010 ed il 2011, aveva interessato in primo luogo i Paesi della sponda mediterranea, in primo luogo la Tunisia e l’Egitto, sull’onda di un malcontento, vissuto presso settori della gioventù urbana e della popolazione povera, determinato dalla crisi economica e dal peggioramento delle condizioni materiali, e, per altri versi, aspetto maggiormente enfatizzato dai circuiti mainstreaming, dalle difficoltà legate alle burocrazie locali ed alle libertà di espressione. La Siria era rimasta sostanzialmente immune ai primi fermenti della sollevazione: se incitazione alla rivolta c’era stata, sino a quel momento, essa era giunta solamente da frange radicali della componente sunnita presente nel Paese, una opposizione storica al regime laico e panarabo espresso dal Ba’th, che, con Hafez al Assad dal 1970 e il nuovo presidente, Bashar al Assad dal 2000, aveva portato la minoranza alawita al potere del Paese. La situazione economico-sociale del Paese è mediamente migliore di quella che si registra in altri contesti: la tradizione multi-confessionale del sistema siriano è rispettata e, sebbene le recenti aperture ai mercati occidentali e l’incremento della inflazione abbiano aumentato il gap tra la città e la campagna e tra la costa e l’interno, non si registrano le clamorose sperequazioni frequenti altrove. La protesta del 15 Marzo a Dar’a muove da un contesto tra i più poveri e tradizionalmente ostili al potere ba’thista e si salda a Damasco con proteste di settori studenteschi e di classe media, su cui precipita il combinato disposto della repressione governativa e dell’incitamento anti-governativo proveniente non solo dai settori conservatori ma anche dai media ostili (Al Jazeera e Al Arabya).
Siria, 15 Marzo 2015. La Siria è in piedi, la Costituzione è stata riformata e Assad è al potere. Uno dei temi ricorrenti della comunicazione pubblica da parte di Assad è il refrain per cui «solo con la repressione, senza il consenso, sarebbe impossibile per qualsiasi governo, dopo quattro anni di guerra e di distruzioni, rimanere al proprio posto». Otto giorni dopo quel 15 Marzo di quattro anni fa, il governatore regionale di Dar’a viene rimosso; tempo una settimana, ed anche il capo del governo viene sostituito; nei mesi successivi viene ridotta la coscrizione obbligatoria, rivisto il sistema fiscale, promosso l’incremento dei salari. Il 21 Aprile viene accolta una delle richieste forti delle manifestazioni, la revoca dello stato d’emergenza; la nuova Costituzione siriana viene approvata con un referendum popolare, il 26 Febbraio 2012, da quasi il 90% dei votanti pari a circa il 56% della popolazione siriana (sebbene il dato non sia confermato da osservatori indipendenti); invece, le successive elezioni politiche, il 7 Maggio 2012, sono seguite anche da osservatori indipendenti, registrano una affluenza al voto superiore al 51% e la netta vittoria delle forze della maggioranza, raggruppate intorno al Ba’th nel Fronte Progressista, cui appartengono anche i due partiti marxisti del Paese. Il 3 Giugno 2014, nelle prime elezioni presidenziali pluri-partitiche, a norma della Costituzione rinnovata che abroga il ruolo-guida del Ba’th sullo Stato e sulla società e supera la direzione pianificata dell’economia nazionale, Assad è riconfermato con l’88% dei voti espressi, in una tornata che vede un’affluenza superiore al 73%. Non c’è dubbio che il risultato elettorale, di per sé, non cancella e non giustifica quelle violazioni, di cui anche il governo legittimo si è reso responsabile, nel corso del conflitto; ciò non toglie che la portata di tale consenso vada almeno riconosciuta, specie da parte di chi usa ergersi a “paladino” delle libertà elettorali.
In mezzo, e tuttora, c’è la guerra: una guerra, come è stato detto, “civile” e “per procura”, al netto del fatto che, secondo stime indipendenti, oltre 200 mila terroristi stranieri, provenienti da più di 80 Paesi del mondo, abbiano combattuto in Siria in tutti questi anni; che i danni provocati dalla guerra, secondo altre stime, pur difficilmente quantificabili, ammontino ad oltre 80 miliardi di dollari sino ad oggi; che la Siria è diventata il terreno privilegiato non solo della nuova contrapposizione strategica tra Stati Uniti e satelliti atlantici, da una parte, e Russia e Cina, dall’altra, ma anche delle divisioni nel mondo sunnita, tra Turchia e Qatar, da un lato, ed Egitto ed Emirati Arabi, dall’altro. Le continue provocazioni ed ingerenze straniere, unite alla barbarie, cui assistiamo pressoché quotidianamente, delle varie frange islamiste radicali, nella cornice di una complessiva destabilizzazione ai danni della Siria, come Paese e come governo, hanno alimentato le fila e le risorse di quello stesso terrorismo la cui espansione finisce oggi per preoccupare quelle stesse cancellerie che lo hanno a lungo finanziato e sostenuto; e hanno dato il contributo decisivo al sostanziale azzeramento delle forze democratiche e “moderate” che pure si erano manifestate nella, sempre più lontana, primavera del 2011. Gli interrogativi attualmente in corso, presso alcune capitali europee, sulla riapertura dei collegamenti diplomatici con Damasco, potrebbero essere il segnale di un ripensamento necessario. Se così fosse, andrebbe sostenuto e incoraggiato, per non confermare, ancora una volta, l’insopportabile trappola dei “due pesi e due misure”.