Il governo Renzi marcia spedito verso l’approvazione del ddl di riforma scolastica intitolato #LaBuonaScuola, di questo disegno di legge se n’è parlato molto sui principali organi di stampa, soprattutto perché ad esso sono legati lo sblocco di fondi e finanziamenti rimasti bloccati per anni e le prospettate assunzioni di un nuovo corpo insegnanti finora composto da molti precari.
Per il resto, leggendo con attenzione la bozza di questo ddl è la concretizzazione di uno slogan che un tempo gli insegnanti e i docenti usavano ironicamente e in senso paradossale: “La scuola azienda.” Parliamo di azienda perché con questo ddl la scuola verrà gestita né più né meno come un’azienda, con il dirigente scolastico le cui funzioni assomiglieranno molto a quelle di un manager con poteri e “prerogative speciali”.
Tra queste segnaliamo che, il dirigente scolastico sarà l’unico arbitro non solo della chiamata e della gestione del personale, ma anche della valutazione dei docenti che dovranno sottostare al suo esclusivo giudizio, infine anche la didattica fino ad oggi stabilita del collegio dei docenti, con la nuova riforma scolastica diventerà prerogativa esclusiva del dirigente.
Il collegio non avrà più sovranità in quell’ambito, avrà lo stesso potere decisionale del consiglio di istituto ovvero verrà solo “consultato”, in pratica fine degli organi collegiali e della democrazia scolastica, fine dell’indipendenza del corpo docenti, fine della scuola pubblica per come finora l’abbiamo conosciuta.
Cerchiamo di capirne meglio il perché, attraverso le parole di Niccolò Biondi, un giovane del Partito Democratico, il quale, parlando a titolo personale, in un suo post apparso recentemente su Facebook, ci spiega alcune problematiche contenute in questo ddl di riforma scolastica.
“La chiamata diretta degli insegnanti da parte dei presidi da un apposito albo regionale dei docenti, prevista nella riforma #labuonascuola, rischia di minare profondamente l’articolo 33 della Costituzione, che afferma “l’arte e la scienza sono libere e libere ne è l’insegnamento”.
“Alla luce dell’autonomia degli istituti, della governance incentrata sulla figura del preside e della possibilità di finanziamento da parte di enti privati,” prosegue il post di Niccolò Biondi, ” i docenti dovranno infatti attenersi, in fase di insegnamento, alle direttive impartite dall’alto: altrimenti saluti a fine anno, ed avanti il prossimo. Con un meccanismo di questo tipo, molto semplicemente la scuola statale pubblica cessa di esistere.
Sulla riforma del sistema dell’istruzione, d’altra parte, il peccato è stato all’origine: affidare il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca a Stefania Giannini, ed abbandonare così uno dei settori strategici del Paese all’associazionismo cattolico di Comunione e Liberazione, Opus Dei e Compagnia delle Opere. L’ambiente, per dire, da cui proviene il nostro caro Ministro Lupi, finito nella bufera per le intercettazioni da cui emergono rapporti poco chiari con Incalza. Tutto ciò che è avvenuto in seguito, e che è finito nel testo di riforma uscito pochi giorni fa dal Consiglio dei Ministri, è la logica ed inevitabile conseguenza.”
“La #buonascuola è ciò che il potere ecclesiastico ha sempre desiderato con l’acquolina in bocca ovvero la fine dell’istruzione pubblica e statale nel bene e nel male, perché la #buonascuola i suoi lati positivi li ha” riferendosi certamente alle nuove assunzioni e allo sblocco degli investimenti contenuti nel ddl, ma è anche vero, aggiungiamo noi, che essi vengono barattati con la “possibilità d’infiltrarsi nella governance, influenzando l’impostazione ideologica di istituti scolastici autonomi e gestiti dai presidi come delle aziende in comunione con gli investitori del territorio,” scrive Niccolò Biondi.
L’illuminante post si conclude con una frase che dovrebbe far molto riflettere “Se Cavour diceva, nel 1861 (ed è constatazione che vale ancora oggi, giornata in cui festeggiamo i 154 anni dall’Unità d’Italia) che, fatta l’Italia, andavano fatti gli italiani, ebbene la fine del principio costituzionale dell’unitarietà del sistema scolastico nazionale e la conseguente frammentazione culturale localistica è il modo migliore per NON fare gli italiani. L’unica consolazione, di questi tempi, è la fede nella dialettica hegeliana: all’involuzione del sistema-Paese verso modelli privatistici abbandonati ai particolarismi locali, dovrà pur corrispondere prima o poi una reazione statalista e pubblicistica.”
Insomma in definitiva a nostro parere si tratta di un baratto, si sbloccano soldi e assunzioni e in cambio si sacrificano il concetto e le fondamenta organizzative della scuola pubblica, per ritornare, con un balzo all’indietro di 80 anni, dritti dritti al modello di scuola gentiliana attuata sotto il ventennio. Un dirigente scolastico “forte” nominato da poteri forti, un corpo docenti a “chiamata”, snaturato nella sua funzione collegiale e senza alcuna indipendenza né libertà decisionale nella didattica che verrà imposta dall’alto.