Pregi e difetti del complottismo
Con l’espressione “complottismo” si è soliti designare una particolare teoria che tenta di spiegare un dato avvenimento catastrofico come risultato intenzionale di una strategia segreta di certi poteri, quindi appunto di un complotto, e in disaccordo con la spiegazione ufficiale fornita dai governi e dai grandi media. In senso più allargato si indica la tendenza di chi è portato ad analizzare gli eventi della contemporaneità come esito dell’attività di forze politiche, economiche o militari che celano all’opinione pubblica le loro reali intenzioni.
È innegabile che il complottismo abbia senz’altro giovato nell’individuare le falle delle narrazioni correnti di alcuni fenomeni e di averli presentate come tali a una parte rilevante dell’opinione pubblica, oltre che ad aver saputo formulare un’analisi alternativa e logica delle cause. Ne sono un esempio le tesi sui fatti dell’11 settembre 2001, che hanno mostrato come le Torri Gemelle non possano essere crollate come semplice effetto dell’impatto di un velivolo e che il governo e i servizi segreti americani non potevano essere all’oscuro del dirottamento degli aerei. Un altro esempio è quello delle cosiddette “scie chimiche”, dal nome dell’alone visibile che tracciano alcuni aerei in volo. Aldilà di certe esagerazioni e illazioni indimostrate di alcuni complottisti, è certo che gli apparati militari di diversi stati dispongono di tecnologie in grado di modificare il clima, di provocare o di impedire perturbazioni ed è molto probabile che queste tecnologie siano state usate.
Il complottismo, inoltre, ha saputo correttamente riconoscere dietro certe decisioni politiche l’influenza di attori non manifesti e di lobby che determinano in maniera anche rilevante gli atti dei governi e dei parlamenti.
Una retorica anticomplottista accusa chi sostiene queste teorie di fantasie paranoiche e scarso realismo. È vero che hanno nociuto a questi ultimi alcune esagerazioni, ma bisogna evitare di buttar via l’acqua sporca con tutto il bambino. Pensare che tutto proceda esattamente secondo la narrazione ufficiale e che politici e lobby non mentano mai è anche più ingenuo e irrealistico del vedere complotti ovunque. La storia, dovrebbe esser chiaro, è completamente popolata, in tutte le epoche, da complotti, i quali spesso sono stati svelati solo in una fase successiva rispetto al periodo in cui si sono svolti i fatti. Bisogna evitare di cedere alla tentazione di trarre conclusioni affrettate da pochi e sporadici indizi, senza che siano suffragati da un metodo scrupoloso di verifica, ma non si può neanche bollare a priori come fanatico paranoico chiunque cerchi di avanzare dei dubbi su spiegazioni poco convincenti. Così come sarebbe ingiusto mettere tutto nello stesso calderone, “ufologi”, cacciatori di alieni che vedono in ogni riflesso un disco volante e le discussioni circa la coerenza di versioni, spesso superficiali, fornite all’opinione pubblica.
Bisogna inoltre riconoscere al complottismo di aver richiamato l’attenzione di molti osservatori su soggetti che spesso fanno di tutto per non apparire, in maniera inversamente proporzionale al loro potere – si pensi a lobby internazionali come il Gruppo Bilderberg o la Commissione Trilaterale – infrangendo la solita e usurata retorica “anticasta” che descrive poveri e ignari cittadini vittime di avidi e astuti politici senza scrupoli interessati solo al proprio stipendio e al proprio incarico. Il complottismo ha mostrato a una parte dell’opinione pubblica come, invece, dietro certe scelte impopolari (e spesso anche dietro quelle votate a furor di popolo) ci siano strategie con scopi ben più ambiziosi della semplice protezione del proprio scranno.
Tuttavia, la visione del complottista non è scevra da limiti impliciti a questo stesso approccio. Tende a inquadrare, infatti, il fenomeno entro i confini delle volontà di pochi individui potentissimi. Si personalizza eccessivamente il fluire degli eventi e si tende ad attribuire a tutto una precisa volontà individuale, chiaramente identificabile. Sfugge, perciò, la struttura sociale, il meccanismo e la rete di rapporti e interessi che spesso sovrasta la volontà di singoli, potenti quanto si voglia, personaggi.
In “Furore”, la grande Odissea moderna di John Steinnbeck ambientata nell’America della Grande Depressione, vi è la figura di un contadino espropriato della sua terra dalla banca. Il contadino prende il fucile per vendere cara la pelle all’operaio che sta per demolirgli la casa con una ruspa. Ma quest’ultimo gli spiega che è inutile sparargli, poiché, la banca manderebbe qualcun altro al suo posto a compiere lo stesso lavoro. E anche se il povero agricoltore andasse dal presidente della banca non risolverebbe niente lo stesso, perché poi questi dovrebbe rispondere agli azionisti del suo operato… Il contadino, sconfortato, domanda: “E allora a chi devo sparare?”.
Il dispositivo, per quanto terrificante, proprio perché terrificante, sfugge al controllo personale. È una “macchina infernale” per usare un’espressione miltoniana, automovente e autonoma rispetto ai singoli individui. Identificare degli uomini in carne ed ossa ed addossare loro tutta la colpa in qualche misura rassicura, perché permette di individuare un obiettivo evidente, un nemico contro cui combattere. Ma (è caratteristica delle nostre società) i meccanismi prevalgono sulle persone. Nel “Processo” di Kafka K. È accusato di un oscuro crimine, da un’ignota organizzazione giudiziaria che lo perseguita. L’individuo viene stritolato dal congegno sociale, dall’apparato.
Ciò non significa che sia impossibile qualsiasi resistenza, qualsiasi ribellione e che non si possa invertire il corso degli eventi che procederebbero secondo un inflessibile determinismo. La storia umana è comunque il prodotto degli uomini e da essi può essere modificata. Ma soltanto attraverso una approfondita conoscenza dei fatti e un’organizzazione collettiva. È necessario senz’altro identificare i nemici, ma bisogna anche avere una chiara comprensione della situazione sociale complessiva che li trascende e del fine che si intende raggiungere. Cambiare le persone, non basta. Gli avvenimenti politici degli ultimi anni, in particolare in Italia, dovrebbero insegnare che sostituire qualche candidato non conduce a nulla, se prima non si cerca di mutare quelli che un signore chiamava “rapporti sociali di produzione”.