La notizia l’ha data lei stessa in un comunicato del 21 febbraio 2015 e si riferisce alla disponibilità di partecipare al fondo istituito presso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro per il risarcimento delle vittime del Rana Plaza.
Il Rana Plaza, molti lo ricorderanno, è il palazzo che crollò nell’aprile 2013 a Dacca provocando la morte di 1138 persone e il ferimento di altre 2500. Benetton c’entra perché le vittime erano donne e uomini alle dipendenze delle cinque fabbriche che in quel dannato palazzo cucivano pantaloni, camicette, giacchetti, per famosi marchi mondiali, fra cui Benetton. Lo dimostravano i vestiari con le sue etichette e gli ordini di produzione che affioravano dalle macerie. Per molto tempo, però, Benetton negò il suo coinvolgimento con le fabbriche presenti nel palazzo, finché, inchiodata da prove inconfutabili, fu costretta ad ammettere.
In Bangladesh, come in molti altri paesi del Sud del mondo, non esistono forme di assicurazione contro gli infortuni e in caso di invalidità o addirittura di morte, la sola prospettiva che si apre per le famiglie delle vittime è la miseria. Già in passato si è visto come va a finire. Non paga lo stato perché non è organizzato, non paga l’impresa produttrice perché si dichiara fallita, non paga l’impresa committente perché non accetta di rispondere per un rapporto di lavoro stipulato da altri. Modo facile per incassare i benefici dello sfruttamento senza addossarsi neanche una responsabilità.
Ma ora anche le Nazioni Unite hanno decretato che le imprese committenti debbono fare la loro parte affinché i diritti umani siano rispettati lungo tutta la filiera produttiva. Per questo dopo il crollo del Rana Plaza, la Clean Clothes Campaign e il sindacato internazionale hanno esercitato tutta la pressione possibile per costringere le imprese committenti a istituire un fondo comune destinato a garantire un indennizzo alle vittime e alle loro famiglie.
Le trattative si sono svolte con l’assistenza dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e mentre marchi come Primark, Bonmarché, El Corte Ingles, hanno partecipato in maniera continuativa, Benetton ora c’era, ora non c’era. In ogni caso, quando si è trattato di mettere mano al portafoglio, Benetton si è volatilizzata. La posizione ufficiale era che preferiva agire da sola tramite un’organizzazione bengalese capace di rapidità. Impossibile non notare, però, che il rapporto con un’organizzazione privata, permette a Benetton di fare come vuole perché la mette al riparo da ogni forma di controllo. In altre parole il tutto scivola verso la carità, mentre un fondo gestito in forma democratica e compartecipata trasforma il risarcimento da benevolenza in diritto contrattato.
Convinti che il fondo deve rappresentare anche un’occasione per nuove relazioni industriali a livello globale, la Clean Clothes Campaign, in alleanza con altre realtà della società civile, ha promosso varie iniziative di pressione per spingere Benetton ad aderire al fondo. Non solo proteste davanti ai suoi negozi, ma anche azioni di denuncia tramite i social net e l’ospitalità di alcune vittime che hanno partecipato a manifestazioni pubbliche e incontri con esponenti del parlamento e del governo italiano. E per finire la collaborazione con Avaaz per il lancio di una petizione che ha raccolto oltre un milione di firme. Quanto basta per aver fatto capire a Benetton che è meglio desistere di fronte a consumatori che fanno sul serio. Ma ancora la partita non è chiusa: Benetton ha dichiarato di voler aderire, ma non ha ancora specificato quanto è disposta a metterci. Un buon motivo per non abbassare la guardia e spingerla a versare i cinque milioni di dollari che la Clean Clothes Campaign considera congrui.