La guerra statunitense allo “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante” o ISIL, noto anche come Stato Islamico dell’IS – il singolo maggiore sviluppo della politica estera statunitense nel corso del 2014 – continua a intrigare quelli che cercano la sua logica strategica. Ma la soluzione del puzzle sta in considerazioni che non hanno nulla a che fare con una reazione razionale e realtà sul terreno. In realtà si tratta interamente di interessi politici e burocratici nazionali.
Apparentemente lo sforzo militare a guida USA è mirato a “smantellare” lo “Stato Islamico” in quanto minaccia alla stabilità del Medio Oriente e alla sicurezza statunitense. Ma nessun analista indipendente, militare o dell’antiterrorismo, crede che la forza militare applicata in Iraq e in Siria abbia la pur minima possibilità di conseguire tale obiettivo.
Come hanno riconosciuto liberamente diplomatici statunitensi al giornalista Reese Ehrlich, gli attacchi aerei che l’amministrazione Obama sta conducendo non sconfiggeranno i terroristi dell’IS. E, come approfondisce Ehrlich, gli Stati Uniti non hanno alleati che potrebbero concepibilmente prendere possesso del territorio oggi controllato dall’IS. Il Pentagono ha rinunciato all’unica organizzazione militare siriano considerata un tempo candidata al sostegno statunitense: l’Esercito Siriano Libero.
Lo scorso agosto l’analista antiterrorismo Brian Fishman ha scritto che nessuno aveva “offerto una strategia plausibile per sconfiggere [l’IS] che non implichi un grosso impegno statunitense sul campo …”. Ma Fishman si è spinto oltre, segnalando che [lS] in realtà ha bisogno della guerra offerta dagli Stati Uniti, perché “la guerra rende più forte il movimento jihadista, anche di fronte a grandi sconfitte tattiche e operative”.
Lo stesso IS deve essere interpretato come una conseguenza della peggiore tra le successioni di campagne militari statunitensi dopo l’11 settembre: l’invasione e l’occupazione USA dell’Iraq. La guerra statunitense in Iraq è stata la principale responsabile perché ha creato le condizioni perché prosperassero nel paese estremisti islamici stranieri. Inoltre i gruppi che si sono coalizzati alla fine intorno all’IS hanno imparato come creare “organizzazioni adattative” da un decennio di combattimenti contro le truppe USA, come ha osservato l’allora Direttore dello Spionaggio Militare Michael Flynn. E, infine, gli USA hanno reso l’IS la formidabile forza militare che è oggi consegnando miliardi di dollari di equipaggiamenti a un esercito iracheno corrotto e incompetente che oggi è crollato e ha passato gran parte dei suoi armamenti ai terroristi jihadisti.
Dopo tredici anni in cui l’amministrazione e le burocrazie della sicurezza nazionale hanno perseguito politiche in Medio Oriente che sono palesemente disastrose in termini razionali di sicurezza e stabilità, è necessario un nuovo paradigma per comprendere le motivazioni reali che sostengono il lancio di nuove iniziative quali la guerra all’IS. Il magistrale nuovo libro di James Risen, Pay Any Price: Greed, Power and Endless War, [A qualsiasi prezzo: avidità, potere e guerra infinita] mostra che il fattore chiave in un’iniziativa assurdamente autolesionista di sicurezza nazionale dopo l’altra dall’11 settembre, è stato costituito dalle vaste occasioni che sono state offerte ai burocrati per costruire il loro potere e il loro status.
Oltre a ciò, l’evidenza storica rivela uno schema di presidenti che perseguono avventure militari e altre politiche a causa delle ondate dell’opinione pubblica o per paura che i propri consiglieri per la sicurezza nazionale li accusino di essere teneri con il nemico o riguardo alla sicurezza nazionale in generale. Nel caso di Obama entrambi i fattori hanno svolto un ruolo nella creazione della guerra all’IS.
L’amministrazione Obama ha considerato la presa, da parte delle forze dell’IS, di una serie di città nella Valle del Tigri in Iraq a giugno come principalmente una minaccia politica all’amministrazione stessa. Le norme del sistema politico statunitense richiedevano che nessun presidente possa permettersi di apparire debole nel reagire a eventi esterni che creano forti reazioni nel pubblico.
Nella sua ultima intervista, prima di ritirarsi da Capo dell’Agenzia dello Spionaggio della Difesa – pubblicata il giorno stesso in cui sono iniziati i bombardamenti dell’IS il 7 agosto – il generale Michael Flynn ha commentato: “Persino il Presidente, penso, a volte si sente costretto a fare qualcosa senza dire prima: ‘Un momento! Com’è che è successo questo?’”
Poi, per rappresaglia contro gli attacchi aerei statunitensi, l’IS ha eseguito le decapitazioni del giornalista statunitense James Foley e del giornalista israelo-statunitense Steven Sotloff, aumentando il costo del non assumere azioni militari più forti contro i nuovi cattivi dei media popolari. Persino dopo il primo agghiacciante video dell’IS, tuttavia, il Vice Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Ben Rhodes, ha dichiarato ai giornalisti il 25 agosto che Obama era concentrato sulla protezione delle vite e delle strutture statunitensi e sulla crisi umanitaria, “contenendo” l’IS dove si trovava e appoggiando avanzate di forze irachene e curde.
Rhodes ha anche sottolineato che l’IS era una “organizzazione profondamente radicata” e che la forza militare non poteva “sradicarla dalle comunità in cui opera”. Tale cautela suggerisce che Obama era diffidente riguardo a un impegno bellico indeterminato che lo avrebbe lasciato vulnerabile alla manipolazione da parte dell’esercito e di altre burocrazie.
A malapena una settimana dopo la seconda decapitazione, tuttavia, Obama ha impegnato gli Stati Uniti a collaborare con “amici e alleati” per “annientare e distruggere definitivamente il gruppo terroristico noto come [IS]”. Invece di un ampliamento della missione è stato un “balzo della missione” mozzafiato rispetto alla politica dell’amministrazione di attacchi limitati meno di tre settimane prima. Obama ha accampato la giustificazione parecchio fantasiosa che uno sforzo militare a lungo termine contro l’IS era necessario per impedire una minaccia agli stessi Stati Uniti. La presunta logica era che i terroristi avrebbero addestrato grandi numeri di europei e statunitensi che affluivano in Iraq e in Siria a tornare in patria che attuare “attacchi mortali”.
Significativamente Obama ha insistito nella dichiarazione nel definire ciò “una strategia completa e sostenuta di antiterrorismo”, ma non una guerra. Definirla guerra avrebbe reso più difficile controllare l’ampliamento della missione attribuendo nuovi ruoli militari a varie burocrazie e anche a por termine alla fine all’operazione.
Ma i servizi militari e le burocrazie dell’antiterrorismo nella CIA, nella NSA e nel Comando Operazioni Speciali (SOCOM) consideravano interesse centrale un grande e sfaccettata operazione militare contro l’ISIL. Prima delle mosse spettacolari dell’ISIL nel 2014, il Pentagono e i servizi militari erano di fronte alla prospettiva di stanziamenti in declino per la difesa, dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Ora l’esercito, l’aviazione e il comando operazioni speciali vedevano la possibilità di scavarsi nuovi ruoli militari nella lotta all’ISIL. Il Comando Operazioni Speciali, che era stato lo strumento preferito di Obama nel combattere gli estremisti islamici, stava per subire il primo bilancio fermo dopo tredici anni di continui aumenti degli stanziamenti. E’ stato descritto come ”frustrato” dall’essere relegato alla sola organizzazione di attacchi aerei statunitensi e ansioso di attaccare l’ISIL direttamente.
Il 12 settembre sia il Segretario di Stato, John Kerry, sia il Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Susan Rice, definivano ancora gli attacchi aerei una “operazione antiterrorismo”, pur riconoscendo che alcuni nell’amministrazione volevano chiamarli “guerra”. Ma la pressione del Pentagono e dei suoi associati dell’antiterrorismo per far diventare l’operazione una “guerra” sono state così efficaci che c’è voluto un solo giorno per compiere la svolta.
Il mattino seguente il portavoce dell’esercito, ammiraglio John Kirby, ha dichiarato ai giornalisti: “Non confondiamoci, sappiamo di essere in guerra con [IS] allo stesso modo in cui siamo in guerra, e continuiamo a essere in guerra, con al-Qaeda e i suoi affiliati”. In seguito, nella stessa giornata, l’addetto stampa della Casa Bianca, John Ernst, ha usato lo stesso linguaggio.
Nelle situazioni esistenti in Iraq e in Siria la reazione più razionale ai successi militari dell’IS sarebbe stata evitare del tutto un’azione militare statunitense. Ma Obama ha avuto incentivi potenti per adottare una campagna militare che poteva vendere a elettorati politici chiave. Non ha senso strategicamente, ma evita i pericoli che realmente contano per i politici statunitensi.
Di Gareth Porter, giornalista d’inchiesta indipendente e storico esperto di politica statunitense e sicurezza nazionale
Traduzione di Giuseppe Volpe