Anche il Papa è discutibile.
Una sua recente frase ha suscitato polemiche ed interpretazioni diverse. Qualcuno ha detto che il richiamo al “pugno” potrebbe essere inteso come legittimazione della violenza. A me non pare.
L’esegesi di un testo comincia dal contesto. In questo caso si tratta di un dialogo con i giornalisti, durante un lungo viaggio aereo. Dunque non una frase inserita in un’Omelia, o in un discorso ufficiale dal soglio di San Pietro, o in un’Enciclica, ma poco più che una chiacchierata. Un contesto “laico”, come spesso ci ha abituati Papa Francesco, avvallando l’idea che il suo pensiero personale va disgiunto da quello della Dottrina.
Si sta parlando dei tragici fatti di Parigi, della strage alla redazione di Charlie Hebdo, della libertà di espressione e di satira anche sulla religione. La frase incriminata testualmente dice:
“… è vero che non si può reagire violentemente… ma se il dottor Gasparri, grande amico, dice una parolaccia contro la mia mamma… ma gli aspetta un pugno… è normale … non si può provocare, non si può insultare la fede degli altri …”.
Una reazione forte, di rabbia, per un torto subito. Il Papa non dice che bisogna fare così, che è giusto, dice solo che è normale reagire così, che è umano.
D’altra parte proprio nel Vangelo di Giovanni si racconta dell’ira di Gesù a Gerusalemme, che andò oltre il pugno, usando la frusta:
“Trovò nel tempio i venditori di buoi, di pecore e di colombe e i cambiavalute seduti, e fattasi una frusta di funicelle scacciò tutti dal tempio, anche le pecore e i buoi, disseminò il denaro dei cambiavalute, rovesciò i banchi e disse ai venditori di colombe: «Portate via questa roba di qui e non fate della casa del Padre mio una casa di mercato”. Una reazione forte, fortissima, per protestare contro la profanazione del Tempio, cioè della fede.
Questo episodio di violenta reazione di Gesù, trovò l’ammirazione perfino di Gandhi. Lo racconta lui stesso, e spiega il perchè:
“Buddha portò coraggiosamente la guerra nel campo nemico e mise in ginocchio il clero arrogante. Gesù scacciò i cambiavalute dal tempio e invocò la maledizione del cielo su ipocriti e farisei. Entrambi propugnarono un’azione intensamente diretta. Ma anche quando Buddha e Cristo punirono, in ogni loro atto manifestarono una dolcezza e un amore inequivocabili”. E’ lo spirito d’amore con il quale si compie il gesto, che definisce la bontà o meno del gesto stesso. Gandhi lo spiega anche con un altro esempio calzante, questa volta prendendo a campione lo schiaffo:
“In una famiglia, quando il padre dà uno schiaffo al figlio colpevole, questi non pensa di rendere la pariglia. Ubbidisce a suo padre non per l’effetto dissuasivo dello schiaffo, ma per l’amore offeso che vi intuisce. Questa secondo me è un’epitome del modo in cui la società è o dovrebbe essere governata. Quello che è vero della famiglia, deve essere vero della società, la quale non è che una famiglia più grande”.
Sento, in questi racconti e parabole di Gesù e Gandhi, una grande libertà interiore, tenerezza e compassione per l’umanità, al di là di norme e regole, di moralismi e dogmi. La nonviolenza del Vangelo scardina ogni fondamentalismo che assolutizza la Legge. Ciò che davvero conta è solo l’amore, la “carità” direbbe San Paolo (“la carità è paziente, è benigna la carità; la carità non invidia, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, ma si compiace della verità; tutto tollera, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”).
E dunque con questo metro di giudizio una parola può essere violenta se detta senza carità, e un pugno può essere amorevole se mosso da carità (pensiamo alle famose “cinghiate” date da don Lorenzo Milani ai suoi amatissimi figlioli di Barbiana).
Sto rischiando la blasfemia nonviolenta?
Il punto è stabilire un limite. Ma chi può e dove si può stabilire il limite dell’astensione dalla violenza? La stessa domanda se l’è posta Gandhi, che si è dato questa lungimirante ed illuminante risposta:
“Il limite non può essere lo stesso per tutti. Infatti, benchè il principio sia essenzialmente il medesimo, tuttavia ciascuno o ciascuna lo applica a suo modo. Quello che è cibo di uno, può essere veleno per un altro. Mangiare carne per me è peccato. Ma per un’altra persona che è sempre vissuta di carne e non vi ha mai visto nulla di male, sarebbe peccato rinunciarvi semplicemente per imitarmi. Se voglio fare l’agricoltore e vivo nella giungla, dovrò usare un minimo inevitabile di violenza per proteggere i miei campi. Dovrò uccidere scimmie, uccelli e insetti che divorano il mio raccolto. Permettere in nome della nonviolenza che i raccolti vengano divorati dagli animali mentre nel Paese c’è la carestia, è peccato. Il bene e il male sono termini relativi. L’uomo non deve annegare nel pozzo delle shastra (regole), ma tuffarsi nel vasto oceano e trarne perle. A ogni passo usare il suo discernimento per stabilire che cosa sia ahisma (nonviolenza) o hisma (violenza)”.
Io leggo così questo pensiero gandhiano: se ne hai la forza rispondi alla violenza porgendo “l’altra guancia”, altrimenti trova un tuo modo di reagire che sai sostenere, purchè teso alla nonviolenza.
Sono grandi insegnamenti di laicità, che ci vengono proprio da chi ha vissuto fino in fondo una fede profonda nell’umanità. Gandhi ha sempre lottato contro i fondamentalismi. Ha combattuto il fondamentalismo islamico, è morto per mano di un fondamentalista indù, e ci ha messi anche in guardia dal fondamentalismo nonviolento (rischio sempre possibile).
Dunque libertà e laicità, che sono l’esatto contrario di oscurantismo e clericalismo, sono valori vissuti con profonda fede da chi sperimenta fino in fondo la condizione umana, aperta a tutti; e proprio per questo agisce senza nascondere i limiti della propria umanità.
Proseguendo il dialogo con i giornalisti Papa Francesco, o meglio Jorge Mario Bergoglio, ha confessato un’altra propria debolezza, in relazione alla possibilità di attentati alla sua persona: “Ho paura? Alcune volte mi sono chiesto: ma se accadesse a me questo? E ho detto al Signore: ti chiedo solo una grazia, che non mi faccia male perché non sono coraggioso di fronte al dolore, sono molto timoroso. So che sono nelle mani di Dio ma so anche che si prendono delle misure di sicurezza prudenti ma efficaci. Per il resto: speriamo!”. Ci possiamo riconoscere tutti in questa candida fragilità. Il coraggio non è non avere paura, ma avere paura e andare avanti lo stesso.
Ecco, il pugno di Bergoglio, dato con tenerezza, mi appare come un paradosso per affermare che la nonviolenza è davvero “forza e amore ”, accessibile a tutti, con i nostri limiti e contraddizioni.
Mi sia concesso di concludere questo scritto con la leggerezza che viene dal senso umoristico che mai dobbiamo perdere (siamo partiti da Charlie Hebdo). Come nei temi delle scuole medie chiudo con la citazione di una canzone di Adriano Celentano: “… e quando mezzanotte viene / se davvero mi vuoi bene / pensami mezz’ora almeno / e dal pugno chiuso / una carezza nascerà”.