Il 2015 è il centesimo anniversario di una tremenda macchia per l’umanità ed io sono nato e cresciuto in un paese in cui abbiamo vissuto particolarmente questa profonda ferita. I miei compagni di classe, i miei vicini, i miei amici Alen, Garen, Kirkor, Natalia e Serço quest’anno si ricorderanno forse almeno per la quantesima volta di un passato difficile e triste e lo faranno continuando a vivere insieme ai figli ed ai nipoti degli assassini dei loro nonni. Continueranno a vivere, lavorare, amare, correre, mangiare, respirare, ridere, piangere e morire in un paese in cui i conti con il passato, purtroppo, non si fanno ancora in modo obiettivo.
Un uomo di nome Hrant Dink, fatto stendere a terra il 19 gennaio 2007 davanti alla sede centrale del quotidiano nazionale per cui lavorava, Agos, fu colpito da un minorenne con una pallottola nel cranio, codarda, da dietro. Aveva parlato delle possibilità di vivere insieme in uno dei paesi più belli del mondo. Dink aveva cercato giorno e notte di rimuovere quella polvere rimasta sopra a ricordi atroci, perché gli Armeni, figli e nipoti delle vittime del genocidio residenti in Turchia, non stessero più zitti e perché tutte quelle persone che avrebbero voluto continuare ad ignorare la storia, smettessero di farlo. Nonostante mille difficoltà, Hrant credeva in un futuro di convivenza e pacifico che avrebbe reso più prospere le terre dell’Anatolia che hanno dato vita, acqua e pane a mille civiltà nella storia dell’umanità. Come molti altri intellettuali, poeti, giornalisti e cineasti sparsi per i corridoi della storia è stato definito un “traditore della patria” ed è stato giustiziato, senza giustizia, con una pistola.
Oggi, chi amava Hrant Dink continua ad aspettare il verdetto finale del sistema giudiziario. Sono passati otto anni ed il processo sull’assassinio di Dink procede con mille difficoltà ed ostacoli. Persone assolte, condannate, premiate, mistificate… Una frase riassume molto bene questa tristezza kafkiana, una frase pronunciata dalla moglie di Dink, Rakel: “Cari fratelli miei, finché non si interroga l’oscurità che ha plasmato un assassino dal corpo di un bambino, non si può fare nulla”.
Ecco uno degli ultimi articoli scritti da Hrant Dink prima di essere assassinato:
“Sono della Turchia… Sono armeno… Sono dell’Anatolia fino al midollo. Non ho mai pensato nemmeno un per un giorno di abbandonare il mio paese e di attaccarmi come una zecca alle democrazie create dagli altri a prezzi alti e di costruire il mio futuro nel paradiso delle libertà preconfezionate chiamato Occidente.
Far diventare il mio paese un paradiso delle libertà di questo genere è stata la mia principale preoccupazione. Ho pianto quando il mio paese piangeva per Sivas. Mentre il mio popolo lottava contro le bande, lottavo anch’io. Ho sposato il mio destino con il processo per la creazione delle libertà del mio paese. E non mi sono trovato per caso sopra ai diritti dei quali oggi riesco a godere, oppure dei quali non riesco a godere, ma ho pagato il costo necessario e lo sto pagando ancora. Tuttavia, ormai…
Sono stufo di incoraggiamenti artificiosi come “i nostri armeni” e di provocazioni come “i traditori in mezzo a noi”. Sono stufo sia di essere escluso che di essere abbracciato tanto da essere soffocato, “abbracci” che mi fanno dimenticare di essere un qualsiasi e normale cittadino.
Non ho potuto sfilare il 24 aprile, né sono riuscito a costruire dei monumenti a nome dei miei antenati. Tuttavia non li ho lasciati in quei giorni del passato, né li ho pietrificati nei giorni di oggi. Ho caricato sulle mie spalle l’idea di viverli nella mia vita… E li ho portati sulla mia schiena rendendoli vivi ai limiti della mia forza. Ed ho lottato ferocemente con chi o cosa ha provato a interrompere questo mio impegno.
Ovviamente so cosa hanno vissuto i miei antenati. Alcuni lo chiamano “assassinio”, altri “genocidio”, alcuni “delocalizzazione” e altri “tragedia”. I miei antenati lo chiamavano “strage” con la lingua dell’Anatolia. Io invece la chiamo “distruzione”. E so che se non fossero successe queste cose, oggi il mio paese sarebbe più vivibile e molto più invidiabile.
È per questo motivo che maledico coloro che hanno causato la distruzione e coloro che sono stati utilizzati per portare avanti questa distruzione. Però la mia maledizione è per il passato. Ovviamente vorrei imparare tutto quello che è accaduto nel passato, ma quel senso d’odio è una vergogna… Lo vorrei lasciare nella grotta buia della storia e dico che vorrei che rimanesse lì e non vorrei conoscerlo…
Mi pesa il fatto che i miei problemi di oggi, oppure del mio passato vengano utilizzati come capitale nelle Europe, nelle Americhe. Lo vivo come una sorta di stupro, abuso, malcelato da bacetti innocenti. Non accetto più l’arbitraggio vigliacco dell’imperialismo che cerca di strozzare il mio futuro dentro al mio passato.
Quegli arbitri sono i dittatori che facevano lottare tra di loro i gladiatori schiavi nelle arene: li guardavano con gusto e, alla fine, chiedevano al vincitore con un pollice verso di far fuori l’avversario ferito. Per cui non accetto, in questa epoca, l’arbitraggio di un Parlamento oppure di uno Stato.
I veri arbitri sono i popoli e la loro coscienza. E la mia coscienza non può essere misurata con la coscienza di nessun potere statale e con la coscienza di nessun popolo. L’unica cosa che desidero è quello di poter parlare liberamente del nostro passato comune in modo dettagliato e di quella storia senza tirare fuori conflitti con i miei amati amici della Turchia.
Credo con tutto il mio cuore che un giorno tutti i turchi e gli armeni potranno parlare tra di loro di questo. E non vedo l’ora di arrivare al giorno in cui la Turchia e l’Armenia parleranno di tutto tranquillamente e sistemeranno il necessario, così, io, quel giorno, rivolgendomi alle terze parti indifferenti, dirò: “Adesso vi restano tre punti”.
Gli armeni del mondo si stanno preparando per commemorare il novantesimo anniversario del 1915. Lo facciano pure… Hanno ragione. E le righe scritte sopra rappresentano il mio stato d’animo.
Cordiali saluti”