Fahd Ghazy è stato detenuto illegalmente Guantanamo da quando aveva 17 anni. Ora ne ha 30. Nel 2007 ha avuto l’autorizzazione al rilascio. E’ difeso dal Centro per i diritti costituzionali
Comincio chiedendovi di perdonarmi, per favore, se non dirò le cose giuste o se non ho fatto delle considerazioni giuste. Ci sono differenze culturali tra di noi e molte esperienze diverse.
Mi fa male non poter avere il privilegio di esprimermi. Voglio avere l’onore di parlare apertamente con la mia voce e di arrivare a voi in modo diretto – siete persone attente. Voglio ringraziarvi per il vostro interesse nei miei confronti. Siete disposti a vedermi come un essere umano e questa è una cosa molto preziosa per me.
Il mondo mi ha conosciuto tramite Guantanamo. Avevo 17 anni quando mi hanno mandato qui. All’epoca avevo visto raramente la televisione o ascoltato la radio. Tutti gli eventi significativi della mia vita, dai funerali, al mio matrimonio, alla nascita della mia amata figlia, Hafsa, sono avvenuti nel salotto della mia casa. Ora ho quasi 31 anni.
Questo significa che sono cresciuto a Guantanamo. Sono cresciuto in questa struttura. Sono cresciuto nella paura. Spero che questo vi aiuti a capirmi.
Spero di essere ascoltato.
Qui a Guantanamo nessuno mi presta ascolto. Sono soltanto ignorato. In 13 anni di detenzione senza accuse, non sono mai stato in grado di dire a qualcuno chi sono.
Non sono ISN 026. Questo è il numero che mi ha dato il governo.
Il mio nome è Fahd Abdullah Ahmed Ghazy. Sono un essere umano – un uomo – che è amato e che ama.
Vorrei avere la capacità di descrivere i 13 anni trascorsi a Guantanamo. La mia stessa mente si chiude quando cerco di pensarci. E non ho parole che possano farvi realmente capire.
In questo periodo ho perduto così tanto sia qui in prigione che nel mondo esterno che ho lasciato.
Mi manca la mia casa – troppo. La verità, però, è che se tornassi nel mio villaggio domani, sarei uno straniero anche tra le persone che mi amano di più.
Pochi giorni fa Omar mi ha portato tante fotografie del mio villaggio scattate durante le riprese del documentario Waiting for Fahd [In attesa di Fahd]. Me le sono portate nella cella e lo ho tenute come un tesoro – ho guardato ogni faccia, ogni edificio, e ogni cima di montagna. Sono stato in piedi fino all’alba, prima della preghiera del Fajr esaminando le immagini una per una. La mia mente e il mio cuore erano in competizione. Volevo essere in grado di riconoscere ogni dettaglio delle foto per ricordarmi della mia vita prima di Guantanamo, ma era quasi impossibile.
Non ho riconosciuto le facce neanche dei miei migliori amici.
Il mio fratello minore, Abdur –Raheem, al quale di solito davo da mangiare, curavo ed educavo, non mi conosce. Soltanto ora sa che esisto.
I bambini del villaggio erano soltanto neonati quando sono andato via. Per loro adesso sono soltanto un nome. C’è perfino un altro un altro Fahd Ghazy nel mio villaggio, un mio nipote. E’ già un adolescente, ha quasi l’età che avevo io quando ho visto la mia casa per l’ultima volta.
E la vecchia generazione? Se ne sono andati quasi tutti, uno alla volta, mentre io aspettavo.
La perditi più tragica che ho sopportato a Guantanamo è stata la morte improvvisa di mio zio. Era diventato come un padre per me quando mio padre è morto. E’ stato anche il mio insegnante e la mia guida. Io facevo affidamento su di lui e lui si prendeva cura di me.
Non è riuscito a sopportare il dolore di sapere che ero stato messo in prigione in questo posto. Ogni volta che avevo il permesso di parlare al telefono con la mia famiglia, non partecipava. Non riusciva a vedermi qui o a parlarmi. Non sopportava neanche di scrivermi delle lettere.
Ma mi mancava tantissimo e sono stato egoista. Volevo vedere la sua faccia, soltanto per ricordarmi di lui ed essere confortato. Gli ho scritto. Ho supplicato tramite altri membri della mia famiglia. L’ho pregato di accettare una mia video chiamata. Alla fine ha acconsentito.
Erano le 8 di mattina a Camp Echo, mercoledì. La Mezzaluna Rossa (equivalente della Croce Rossa, n.d.t.) ha chiamato i nomi dei membri della famiglia a Sana’a (Yemen) che partecipavano a una video chiamata con me. Ho pianto soltanto a sentire annunciato il nome di mio zio. Sono stato sopraffatto dalla commozione, ma lui ha mantenuto il suo autocontrollo.
Mi ha detto: “Ti vogliamo bene, ti aspettiamo, continueremo ad aspettarti.”
E poi, proprio davanti ai miei occhi, è morto. Ha smesso di parlare e ha piegato la testa. La mia famiglia si è precipitata a soccorrerlo e la comunicazione si è interrotta. Ero seduto in silenzio, incatenato alla mia sedia, senza più difese.
Quando è ripreso il collegamento, non c’era più l’immagine. Ho sentito soltanto mio fratello, la voce di Mohammed: “Se ne è andato,” ha detto.” E’ stato troppo per lui.
In quel momento ho realmente saputo che cosa è Guantanamo e quanto potere ha su coloro che sono qui dentro e per quelli che sono fuori.
Il tempo mi ha lasciato indietro a Guantanamo. Devo accettare questo fatto, ma mi fa sentire di essere in una grande solitudine e isolamento. Alle esterno sembra che io stia bene, ma dento di me sono distrutto.
Non c’è colpa e non c’è innocenza, qui a Guantanamo. Sono delle idee vuote. E’ soltanto un gioco che vi si svolge.
Ma c’è sempre il bene e il male. Questo non può mai cambiare.
Anche coloro che mi hanno messo “in gabbia” sanno che cosa è giusto. E’ giusto liberarmi. Ho avuto l’autorizzazione. Questo significa molto a Guantanamo, tranne se si viene dallo Yemen. Sono stato autorizzato a uscire fin dal 2007, ma aspetto ancora la mia libertà
Ho aspettato una vita proprio per ricominciare a vivere.
La prima volta che ho visto Omar dopo che è tornato dallo Yemen, ero così pieno di gioia soltanto di vedere qualcuno che era stato faccia a faccia con mia figlia e la mia famiglia. Qui davanti a me c’era qualcuno che era stato davvero nella mia casa, e che aveva mangiato il cibo che di solito mangiavo io. Aveva sentito la voce di mia madre. Aveva sperimentato tutto quello che avevo sperimentato io e tutto quello che voglio di nuovo. Potevo quasi afferrarlo. Per un momento ero di nuovo collegato.
Quello che vedete nel documentario Waiting for Fahd è il mio sogno. Voglio che si avveri. Potete aiutarli a farlo diventare vero. Potete aiutarmi.
Bambini, vi chiedo di pensare a mia figlia Hafsa.
Ai giovani dico: ricordate i 17 anni. Pensate a come sono stato privato di ogni cosa necessaria a un giovane per maturare nella vita: un lavoro, l’educazione, esperienze da cui imparare.
Spose, pensate a mia moglie che ha trascorso la primavera della sua vita – la sua gioventù – aspettandomi, prendendosi cura da sola di Hafsa.
Madri, pensate a me quando pensate ai vostri figli. Pensate a mia madre che desidera rivedermi.
Padri, pensate a me che stendo le braccia verso mia figlia da questo posto.
Ho perduto i momenti migliori che un padre potrebbe mai godersi: i primi passi di Hafsa, portarla a scuola, osservare i suoi successi, aiutarla quando inciampa. Non vedo l’ora che venga il giorno in cui non mi mancherà più. Le starò vicino e da allora in poi non perderò un minuto con lei.
Ho fame di quei momenti, quando mi guarda e mi sorride o mi dice parole gentili oppure ride.
Questo è il desiderio che ho nella parte più profonda della mia anima.
Ora che avete sentito la mia storia e che hai visto i miei sogni, non potete girarvi dall’altra parte. Siete scusati soltanto quando non lo sapete, ma ora che sapete, non potete girarvi dall’altra parte.
Vi chiedo: siate la voce per chi non ne ha una – per un altro essere umano che sta soffrendo.
Di Fahd Ghazy, detenuto a Guantanamo. Traduzione di Maria Chiara Starace per Z-Net Italy
Nota aggiunta dal traduttore: Lo straziante documentario “Waiting for Fahd,” racconta la storia dell’assistito del CCR (Centro per i Diritti Costituzionali), un cittadino yemenita illegalmente detenuto a Guantanamo da quando aveva 17 anni e che ora ne ha 30. Per mezzo di commoventi interviste con la sua amata famiglia che vive in Yemen, il documentario dipinge un vivace ritratto della vita che attende un uomo che, anche se per due volte ha avuto l’autorizzazione al rilascio, continua a languire a Guantanamo, e a cui si continuano a negare la sua casa, la sua vita, e i suoi cari a causa della sua nazionalità. (Da: http://ccrjustice.org/fahd)