Il Jobs Act è legge dello Stato e così nel paese soffocato dalla disoccupazione di massa d’ora in poi non ci saranno più ostacoli legali alla libertà di licenziare. Il Senato ha approvato la legge in maniera definitiva ieri sera, nella versione uscita dalla Camera il 25 novembre scorso e con l’ennesimo voto di fiducia. Tutto come previsto, nessuna sorpresa, nessun sussulto di dignità in casa Pd, a parte un unico voto contrario e due assenti.
Ma cosa cambierà esattamente con questo benedetto Jobs Act, che secondo Renzi risolleverà l’economia nazionale, produrrà nuova occupazione e aiuterà i precari? Ebbene, non si sa ancora con precisione, poiché non si tratta di un testo legge già pronto per l’uso, bensì di una legge delega, cioè di una delega al governo il quale scriverà poi in autonomia la legge vera e propria. E considerato che il diavolo si nasconde nei dettagli, specie quando parliamo di norme e leggi, dove una virgola o una parola possono cambiare tutto, questo non è certamente un fatto trascurabile.
Non a caso, in molti avevano sollevato dubbi di costituzionalità rispetto alla scelta di (auto)sottrarre al Parlamento la podestà legislativa in materie così delicate e rilevanti come il lavoro, i diritti e le libertà dei lavoratori e delle lavoratrici. Comunque sia, i dubbi non avevano i numeri per imporsi e quindi ha prevalso anche nel metodo la strada già intrapresa a suo tempo da Berlusconi. Ebbene sì, perché vi ricordate la cosiddetta legge Biagi di riforma del mercato del lavoro del 2003? Anche allora si procedette con una legge delega (legge 30/2003) e poi il governo scrisse la legge vera e propria con il d.lgs. 276/2003.
Sottolineo il fatto della delega per due motivi. Primo, perché in troppi ora ci diranno che la questione è chiusa e che quindi possiamo anche stare a casa invece che scendere in piazza. Secondo, perché i decreti legislativi che il governo adotterà in base alla legge delega potranno peggiorare ulteriormente il quadro.
Per capire quanto il discorso sia delicato basta considerare l’ampiezza delle deleghe, le materie interessate e i “principi e criteri direttivi”. Il governo potrà infatti adottare decreti legislativi finalizzati al “riordino della normativa” in materia di ammortizzatori sociali, servizi per il lavoro e di politiche attive, definire “disposizioni di semplificazione e razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti” in materia di “costituzione e gestione dei rapporti di lavoro, nonché in materia di igiene e sicurezza sul lavoro” e, ovviamente, scrivere un “testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro”, al quale poi si aggiungeranno gli interventi normativi in tema di “maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.
Insomma, il governo potrà intervenire a tutto campo e con ampi margini di discrezionalità. Peraltro, i principi e criteri direttivi indicano assai chiaramente la direzione di marcia degli interventi. In primo piano, ci sono ovviamente gli interventi di riscrittura dello Statuto dei lavoratori(legge 300/70), che andranno in direzione di un forte restringimento dei diritti e delle libertà del lavoratore o della lavoratrice e dell’allargamento dei poteri e delle discrezionalità del padronato. Anzitutto, l’articolo 18, già manomesso dalla Riforma Fornero (allora non contrastata dal sindacato confederale, ad esclusione della Fiom), viene definitivamente fatto a pezzi, poiché il reintegro nel posto di lavoro viene abolito completamente in caso di licenziamento illegittimo per motivi economici, mentre rimarrà solo nel caso di “specifiche fattispecie” di licenziamento disciplinare ingiustificato e, ovviamente (perché qui c’è una questione di costituzionalità), nel caso di licenziamento discriminatorio. In poche parole, il reintegro ci sarà soltanto per quei casi che nella realtà sono quelli più difficili da dimostrare da parte della vittima in sede giudiziaria.
Gli interventi sull’art. 18 sono legati all’introduzione “per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”. Cosa sarà esattamente questo contratto (durata, modulazione delle “tutele crescenti” ecc.) non è scritto nel Jobs Act e sarà definito dai decreti attuativi. Comunque, la nuova disciplina sui licenziamenti varrà sicuramente per i “nuovi assunti” (che è un concetto slegato dall’età anagrafica e comprende anche quanti vengono ri-assunti nello stesso posto di lavoro), mentre non è chiaro cosa succederà per gli altri lavoratori.
Poi ci saranno anche altri interventi sullo Statuto dei lavoratori, come quello che introdurrà la possibilità di demansionamento del lavoratore entro determinati limiti (comunque derogabili dalla semplice contrattazione aziendale) e quello che prevede la “revisione della disciplina dei controlli a distanza” sull’attività lavorativa, attualmente disciplinati in maniera restrittiva a tutela del lavoratore.
Ci saranno poi gli interventi che riguardano gli ammortizzatori sociali, dove si rilancia quanto già previsto dalla Riforma Fornero, cioè l’introduzione dell’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego) come erogatore universale di indennità di disoccupazione. Si tratta di uno strumento che ha suscitato molte aspettative, specie tra i precari e tra quanti oggi sono privi di accesso agli ammortizzatori, ma i punti ancora oscuri sono davvero troppi, a partire dall’ammontare delle indennità, della durata dell’erogazione e dei requisiti d’accesso. Inoltre, cosa più che allarmante, l’Aspi si dovrà fare sostanzialmente a costo zero e quindi tendenzialmente sparirà la cassa in deroga e quelle ordinaria e straordinaria saranno probabilmente rimodulate. Insomma, si rischia che il tutto finisca con il togliere a chi oggi percepisce forme di cassa integrazione per dare qualcosina a una parte di quanti oggi non hanno niente, riducendo però complessivamente il livello delle tutele e delle prestazioni del sistema.
Persino nelle parti del Jobs Act che suonano positivamente, ci sono troppe cose non chiare, oppure degli elementi di forte preoccupazione. Faccio soltanto due esempi.
Primo, si prevede di analizzare tutte le forme contrattuali esistenti e di realizzare dunque degli interventi di “semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali”. Tutto bello, suona bene, ma a parte questa affermazione un po’ troppo generica, usato però nei comunicati stampa governativi per promettere la riduzione del numero dei contratti precari, non c’è assolutamente nulla di concreto.
Secondo, anche nel caso delle cure parentali, della maternità e della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, che giustamente vengono considerate delle cose molto importanti, siamo ad affermazioni piuttosto generiche. Ma poi c’è all’improvviso un dettaglio che suscita qualche preoccupazione: nel caso di “lavoratore genitore con figlio minore che necessita di presenza fisica e cure costanti per le particolari condizioni di salute”, si prevede la possibilità che un altro lavoratore dell’azienda ceda “tutti o parte dei giorni di riposo aggiuntivi” al suo collega in difficoltà. La solidarietà tra lavoratori è sacra, beninteso, ma qui c’è il legittimo sospetto che il governo voglia fare il furbo e scaricare il peso di un welfare sempre più magro sulle spalle dei lavoratori.
In conclusione, se ce l’avete fatta ad arrivare fino a qui, vi consiglio di leggere il testo della legge delega approvato. Guardatevi questa versione, perché così vedete anche le parti modificate dalla Camera settimana scorsa. È utile, perché così si capisce anche che il famoso maxiemendamento, spacciato come “miglioramento” e grande conquista da una parte della “sinistra del Pd”, rappresenta in realtà il nulla.