Quasi quattro mesi sono passati dal cessate il fuoco che ha messo fine al brutale attacco israeliano a Gaza della scorsa estate e il mondo sembra aver dimenticato quella striscia di terra disperata e quella gente che si prepara a passare l’inverno sulle macerie delle proprie case, allagate e sommerse dal fango a causa delle piogge torrenziali delle scorse settimane. Il conflitto combattuto a luglio ed agosto si è concluso, ma per coloro che hanno perso casa, familiari e mezzi di sussistenza, la guerra non è finita affatto.
A Gaza non c’è solo l’ossessione dal passato o il dolore delle perdite ma anche l’incertezza del futuro. A quattro mesi di distanza infatti non si vede neanche l’ombra di una ricostruzione che avrebbe dovuto essere imminente e per la quale la comunità internazionale si è già impegnata con aiuti per 5,4 miliardi di dollari da almeno due mesi. La causa è sempre la stessa: il blocco israeliano, ancora potente e criminale, che limita o nella maggior parte dei casi impedisce il passaggio di persone, merci e materiali da costruzione. Anche a molte Ong, come Amnesty International, è vietato l’ingresso.
A ottobre si è tenuta la conferenza dei donatori al Cairo per la ricostruzione della Striscia, ma come ricorda Oxfam, se non si raggiunge rapidamente un accordo per la fine del blocco israeliano, la maggior parte del denaro raccolto resterà fermo in conti bancari per decenni, prima di poter raggiungere la popolazione palestinese. Secondo la Ong, con le attuali restrizioni e il tasso registrato delle importazioni, ci vorranno più di 50 anni per ricostruire le oltre 90.000 case distrutte o danneggiate (su un totale di 93.000 – dati UNRWA), le 226 scuole, le strutture sanitarie, le fabbriche e le infrastrutture idriche e igienico-sanitarie di cui la popolazione di Gaza ha urgente bisogno. Molti bambini rimasti sfollati saranno nonni quando le loro case e le loro scuole saranno ricostruite.
Ad oggi, gli sfollati sono circa 500.000 e molti di loro vivono nelle macerie delle proprie case, altri nei centri collettivi UNRWA, alloggi di fortuna organizzati nelle scuole sopravvissute, altri sono ospitati dai parenti. Una parte della popolazione di sfollati cerca un posto da affittare ma gli affitti a Gaza sono arrivati alle stelle per soddisfare la domanda. Alcuni sfruttano la situazione andando a vivere con i parenti e affittando le loro case a prezzi astronomici. Non c’è controllo della situazione. A livello sanitario tra il 20 e il 30% delle condutture per l’acqua e dei sistemi fognari sono inagibili, la corrente non c’è ancora per gran parte del giorno e la maggior parte dei gazawi vive di aiuti umanitari. Hanno perso tutto e Israele non permette, da anni ormai, l’esportazione di prodotti e la possibilità di creare un’economia indipendente, obbligandoli alla dipendenza economica con lo Stato ebraico ed umanitaria con le organizzazioni internazionali.
Già dopo Piombo Fuso i donatori riunitisi al Cairo avevano promesso miliardi di dollari per la ricostruzione di Gaza dopo la guerra del 2009. Oggi, a quasi sei anni di distanza, più della metà delle case distrutte allora non è ancora stata ricostruita proprio a causa delle restrizioni imposte da Israele, e con l’ultima operazione israeliana ne sono state distrutte molte altre. Molte zone della Striscia, come l’area di Shajaye, sono sommerse dalle macerie e da ordigni inesplosi. Ora la necessità di azioni concrete è ancora maggiore e la posta in gioco è più alta che mai.
La prima condizione per il cessate il fuoco di fine agosto era quella di mettere fine al blocco israeliano per permettere la ricostruzione di Gaza grazie all’aiuto dei donatori internazionali, ma questo non è ancora avvenuto, nonostante le donazioni siano state raccolte e nonostante l’intera comunità internazionale non abbia neanche preso in considerazione la possibilità che fosse Israele a pagare per i danni arrecati ai palestinesi. Le altre condizioni sarebbero dovute essere discusse in un successivo incontro tra le parti che sarebbe dovuto avvenire entro un mese dal cessate il fuoco, ma neanche questo è mai avvenuto. La situazione di Gaza è rimasta invariata rispetto a prima della guerra, con la differenza che dopo l’ultima operazione israeliana la Striscia è quasi totalmente distrutta e l’emergenza è più alta che mai. I palestinesi hanno la sensazione che nulla sia cambiato e che la guerra che ha tolto la vita a oltre 2.200 persone e la casa a centinaia di migliaia di sopravvissuti sia stata inutile.
La necessità è allora quella di una soluzione a lungo termine che ponga fine al conflitto israelo-palestinese una volta per tutte, quindi la necessità della ripresa dei colloqui di pace interrotti. Lo ha sottolineato anche il Parlamento europeo, che ha approvato nei giorni scorsi, con una larga maggioranza, una Risoluzione che sostiene “in linea di principio” il riconoscimento della Palestina come Stato, basato sui confini del 1967. Proprio in questo senso ha deciso di muoversi anche il Presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas, che ha presentato una Risoluzione al Consiglio di sicurezza Onu con lo scopo di avere una data per la fine dell’occupazione israeliana della Palestina, entro la fine del 2017. Ha tentato dunque la via del riconoscimento pieno attraverso il diritto internazionale, lo stesso che nel 1947 sancì la nascita dello Stato di Israele.
Il pericolo però è che nuove Risoluzioni non servano a molto se non a entrare nella lunga lista (73 ad oggi) di quelle finora ignorate da Israele. Quello che serve è una presa di posizione decisa dei governi, che devono smetterla di tenere il piede in due scarpe dando aiuti umanitari ai palestinesi e nel frattempo rifornendo Israele di armi per ucciderne altri. Se questo circolo vizioso non finirà, il rischio che nuovi Piombo Fuso, Colonne di Nuvole e Margini Protettivi si riversino con tutta la loro violenza su uno dei popoli più stanchi e più poveri al mondo, e che la vita di oltre 2.200 persone sarà stata inutilmente buttata via, sarà sempre più concreto.