Proveremo a dirlo tutto d’un fiato, perché non esistono giri di parole né eufemismi per farlo: gli amanti del cioccolato restano sempre più spesso con un sapore amaro in bocca. Non solo per la vergogna legata allo sfruttamento del lavoro minorile di cui spesso ha parlato anche Unimondo, né per i diritti negati dell’infanzia, e stavolta nemmeno per la qualità del cioccolato che troviamo sugli scaffali dei supermercati afferenti ai circuiti della grande distribuzione, che molto hanno da recuperare per sapore e materie prime rispetto all’originale fava di cacao. Se proprio vogliamo essere precisi, stavolta non c’entra neanche l’impero delle multinazionali che dominano le fasi di produzione, raccolta, trasformazione e commercializzazione del cacao, influenzando gravemente la vita dei singoli e le politiche interne ed estere di molti Paesi.
Questa volta il sapore amaro lo lasciano le parole di due rappresentanti tra le maggiori industrie del cioccolato, Mars Inc. e Barry Callebaut, che hanno lanciato l’allarme: “Il cioccolato sta finendo. Ne mangiamo troppo, tutti, e la notizia non dovrebbe lasciare indifferenti solo gli amanti di questo oro nero delle nostre tavole, perché lo scenario che potrebbe potenzialmente presentarsi all’orizzonte non fa ben sperare nessuno”. Un’affermazione sensazionalistica? A dire il vero alcuni dati che sostengono le loro parole ci sono: la carenza di cioccolato, che costringe i coltivatori a produrne meno di quanto il mondo ne consumi, è ormai la norma. Siamo nel bel mezzo del più lungo (e consecutivo) periodo di scarsità di cioccolato in più di 50 anni e la durata è destinata ad aumentare. Per fare un esempio, lo scorso anno nel mondo si sono mangiate all’incirca 70.000 tonnellate di cacao in più rispetto a quanto ne sia prodotto. Nel 2020 la cifra potrebbe salire a 1 milione, nel 2030 a 2 milioni.
Le ragioni alla base dell’aumento di più del 60% del prezzo del cacao rispetto al 2012 sono di due tipi. Da un lato, un problema di risorse: il clima sempre più arido che spazza l’Africa occidentale, principalmente Costa D’Avorio e Ghana (che ospitano più del 70% della produzione mondiale di cacao), ha causato una decisa diminuzione della produzione nella regione; senza dimenticare la comparsa di un fungo, conosciuto come frosty pod, che ha intaccato le piante del cacao anche in America Latina, rovinando tra il 30 e il 40% della produzione mondiale (stime dell’Organizzazione Internazionale del Cacao); problemi questi che hanno spinto i coltivatori di cacao, di fronte alle insidie di questo business, a spostarsi su coltivazioni più semplici e più redditizie, come ad esempio il mais (ci tratteniamo dall’aprire qui un ragionamento sulle conseguenze di questo “trasferimento” di forza lavoro su un prodotto per cui produzione, trasformazione e consumo sono già sufficientemente problematici e controversi).
Dall’altro lato, un problema di consumi: il mondo ha per il cioccolato un appetito insaziabile, e il crescente amore della Cina per il cacao ha allertato non poco gli osservatori. Il consumo cinese di cioccolato sta aumentando di anno in anno e, ciò nonostante, i cinesi consumano pro capite circa il 5% del consumo medio dell’Europa Occidentale. Senza contare la crescente popolarità del cioccolato fondente, che contiene un volume di cacao maggiore (minimo 70%) rispetto alle tradizionali tavolette (10%).
Uno tra gli sforzi messi a punto per contenere il crescente squilibrio tra domanda e offerta fa capo a un gruppo di ricercatori in campo agricolo dell’Africa Centrale che sta sviluppando alberi che possano produrre una quantità di fave di cacao 7 volte maggiore rispetto a una normale pianta. Non è ancora stato dimostrato però che queste modifiche nella struttura genetica della pianta non comportino cambiamenti nel gusto del prodotto, conseguenza che paragonerebbe il processo subito dal cacao a quelli che interessano altri beni primari nella produzione di massa. Lo tentativo di rendere questo bene alimentare accessibile sia a livello quantitativo che a livello economico – rendendolo però al contempo insipido come molti altri prodotti che troviamo sui banchi dei supermercati (basti pensare alle carote, ai pomodori, alle fragole, per non parlare di carne e pesce) – corre il rischio di rendere il tanto amato cioccolato un prodotto trascurabile anche dal punto di vista del gusto. Temiamo in ogni caso, come troppo spesso accade, che consumatori e multinazionali che gestiscono la trasformazione e la commercializzazione del prodotto non si preoccuperebbero in fin dei conti più di tanto se, a fronte di un sapore meno intenso, il prezzo risultasse più economico e tenesse a bada il fantasma di una spropositata carenza.
Come sempre, le vie di mezzo non ci appartengono per natura: all’estremo opposto assistiamo al crescente sviluppo di una produzione di altissima qualità, che ripropone quanto avvenuto negli ultimi anni in campo vitivinicolo. Ecco allora una cioccolata ottenuta con miscele sapienti di semi di cacao provenienti da diverse parti del mondo, accurate e preziose, tratte da piante resistenti alle malattie e arricchite nel sapore da sfumature aristocratiche, sempre più costose e troppo spesso dimentiche dei diritti che premono alle radici di quelle piante cariche di fave.
Di Anna Molinari