Il film “Pride”, del regista inglese Matthew Warchus, è un piccolo gioiello. Ha vinto la Palma Queer al Festival di Cannes e ricevuto la nomination ai Golden Globe 2015 come migliore commedia, ma non vale la pena di correre a vederlo solo per i riconoscimenti ricevuti.
Ecco vari altri motivi.
Innanzitutto si basa su una storia vera, la solidarietà e l’appoggio concreto offerti nel 1984 da un gruppo di gay e lesbiche londinesi ai minatori di uno sperduto paesino gallese, stremati dallo sciopero contro la Thatcher che minaccia di chiudere tutti i pozzi di carbone. Questo dato basta da solo a dare speranza: gli attivisti anti-discriminazione sanno quanto sia difficile mettere insieme gruppi perseguitati per motivi diversi e superare le reciproche diffidenze, i pregiudizi, le credenze, la tendenza a occuparsi solo dei propri problemi e a non vedere quelli altrui. L’idea quindi che questo miracolo sia avvenuto davvero, avvicinando due comunità tanto differenti, costituisce un precedente rincuorante.
La vicenda è raccontata in modo commovente, realistico, ma anche esilarante, con la capacità che hanno gli inglesi di uscire dallo stereotipo di popolo compassato e represso per narrare vicende drammatiche facendo ridere fino alle lacrime – basti pensare a un film come “Full Monty”, tanto per citarne uno. Alcuni dialoghi sono davvero irresistibili: l’anziana gallese che chiede alle lesbiche “Ma è vero che siete tutte vegetariane?” (e due di loro rispondono “Veramente noi siamo vegane”), le attiviste in trasferta londinese che vogliono “vedere tutto, anche il sadomaso”, la ragazzina punk, a lungo unica lesbica dell’LGSM, (Lesbians and Gays Support the Miners – Lesbiche e Gay sostengono i minatori) che a chi le dice di non aver mai conosciuto una come lei, ribatte: “Io non ho mai conosciuto uno che si stira i jeans”.
Al di là delle battute, comunque, il film costituisce un percorso esistenziale e non solo politico per tutti i protagonisti. Un percorso in cui non mancano i momenti duri e dolorosi, che richiede il superamento di pregiudizi e credenze radicati, il confronto tra culture ed età diverse e il coraggio di essere se stessi anche pagando prezzi altissimi, soprattutto nei rapporti familiari.
L’incontro tra i ragazzi londinesi generosi e trasgressivi e la rude comunità gallese impegnata in una lotta per la sopravvivenza non è affatto facile. All’inizio si tratta da una parte di solidarietà e riconoscimento di un nemico comune – la stampa di destra, la polizia e il governo – e dall’altra di timida riconoscenza per l’aiuto ricevuto, ma poi l’impacciato rapporto iniziale si trasforma in amicizia e affetto. Dopo il sindacalista che riceve i fondi raccolti ed è il primo a rompere il ghiaccio, si fanno avanti le donne (con un’unica eccezione). La musica e la passione politica aiutano: pur di segno molto diverso, la bellissima canzone “Bread and Roses”, cantata in coro nella sala comunitaria del paese e la scatenata serata londinese “Pits and Perverts” (Minatori e Pervertiti), uno dei primi eventi condivisi da gay ed etero, fanno da collante emotivo. Per non parlare del trascinante ballo improvvisato da Jonathan, veterano gay il cui fascino seduce uomini e donne.
Non tutti ci stanno, naturalmente; pretendere l’unanimità sarebbe zuccheroso e irrealistico e questa sincerità è un altro dei meriti del film. In Galles uno zoccolo duro non riesce a superare i pregiudizi, teme che l’appoggio dei “finocchi” danneggi una causa già quasi persa e fa di tutto per sabotarlo, mentre a Londra molti gay reagiscono irritati alla richiesta di donazioni per i minatori domandando “Perché dovremmo dargli dei soldi? Loro cosa hanno fatto per noi?”.
Man mano che la vicenda prosegue, due ombre si fanno sempre più gravose: la minaccia dell’AIDS sulla comunità gay e la pesante sconfitta dei minatori, costretti ad arrendersi dopo un anno di lotta. Eppure il finale regala un momento esaltante: pulman su pulman di minatori arrivano a dar man forte al Gay Pride del 1985 e proprio grazie al voto e all’impegno del sindacato dei minatori la difesa dei diritti di gay e lesbiche entra a far parte del programma laburista. In quel momento il doppio significato in inglese di “union” – sindacato, ma anche unione – non potrebbe essere più evidente.
Ultimo motivo per vedere “Pride”, forse un po’ nostalgico, ma comunque potente: a chi ha amato i film americani dei primi anni Settanta non sfuggirà che Joe, il giovanissimo fotografo dell’LGSM e unico personaggio d’invenzione, è identico a Simon, il protagonista di “Fragole e sangue”. Non si tratta solo di somiglianza fisica, ma anche e soprattutto di percorso umano: Joe deve trovare il coraggio di ribellarsi alle convenzioni e ai valori familiari per affermare la sua omosessualità, Simon deve abbandonare i riti rassicuranti dello sport e dello studio per partecipare alla protesta contro la guerra in Vietnam e affrontare la violenza della polizia. Forse questo accostamento è frutto di una scelta intenzionale, forse no, ma contribuisce comunque al valore di un film prezioso.