Il recente scandalo di Roma che ha visto pezzi della destra neofascista ed esponenti di spicco del mondo politico farsi organizzazione criminale di stampo mafioso allo scopo di lucrare sulla pelle dei migranti ripropone non solo un problema di controllo della cosa pubblica ma rimette in discussione tutta la politica di gestione dei servizi pubblici.
I rapporti che Carminati, Buzzi e Co. avevano stabilito con l’amministrazione pubblica, e non solo a Roma, li vedevano coinvolti nella gestione di diversi servizi alla cittadinanza. Si andava dalla manutenzione del verde pubblico alla raccolta dei rifiuti, dai centri di accoglienza alla gestione dei campi rom fino alla pulizia degli ambienti ospedalieri.
Ovviamente la cupola romana non si esauriva in quei contesti ma si estendeva in quelle pratiche tipicamente mafiose dell’usura, del traffico di droga e del controllo del bene pubblico e in chissà quali altri loschi traffici.
Il come tutto ciò sia stato possibile non è da ricercare esclusivamente nella facile permeabilità all’illegalità di certi politici e amministratori o alle capacità estorsive di certi gruppi criminali ma deve ricondursi essenzialmente al modo in cui la politica ha voluto gestire la cosa pubblica.
Sempre più negli ultimi decenni, dalla sanità all’istruzione, dai servizi ai disabili alla gestione dei beni essenziali (acqua pubblica in testa), la politica ha cercato, e quasi sempre ci è riuscita, ad introdurre una gestione privatistica. In questi decenni, all’insegna di logiche neoliberiste, si è consegnato al privato, la gestione di molte di quelle competenze che costituiscono il mandato per un’amministrazione pubblica.
La politica ha trasformato così l’amministrazione della cosa pubblica in un semplice ente erogatore di capitale.
Ciò che l’operazione della magistratura denominata “Terra di mezzo” ha evidenziato è che in quei servizi che si rivolgevano ai migranti, cioè in quella fascia di residenti più emarginata, l’insieme umano meno difeso e tutelato, la logica del profitto ha avuto ampi margini di manovra.
Occuparsi dei migranti per la politica è significato semplicemente affidare a qualche cooperativa la gestione della problematica. In qualche caso non si è occupata nemmeno di verificare il grado di umanità come si è visto con i Centri di Permanenza Temporanea, ex-CIE.
Lo scandalo romano del “se fanno più soldi co’ l’immigrati che co’ er traffico de droga” non è solo una questione di corruzione, non è solo una questione di mafia, non è solo una questione di criminalità e di commistione con alcuni esponenti politici ma è invece e soprattutto una questione di direzione politica.
Il sistema Carminati – Buzzi (presumibilmente ancora in atto in altre realtà non solo romane), da un lato non permette ad altre cooperative sane, quelle vere, di crescere o semplicemente di esistere. Quel sistema comporta non solo gravi inadempimenti sui servizi a scapito dei settori deboli e un danno ai contribuenti ma si aggiunge un abbattimento del costo del lavoro, la riduzione dell’offerta lavorativa e la precarizzazione dei lavoratori. In ultimo il quasi monopolio a Roma nella gestione dell’accoglienza ai rifugiati e dei campi rom si è modulato in maniera opportunistica agli interessi di quella parte politica che deve garantire la continuità e l’aumento del profitto.
In altre parole, la gestione di certi servizi pubblici da parte del privato produce necessariamente una commistione tra politica e interessi privati. Questo è vero anche quando non c’è l’illecito, quando non c’è la corruzione, anche quando chi vince gli appalti non sono personaggi come Buzzi e Carminati.
Questo è ciò che deve capire il ministro Poletti quando s’indigna per una campagna mediatica che l’affiancava al malaffare romano. Il non aver preso mazzette lo può salvare dall’illegalità ma non lo salva dalla responsabilità di controllare i suoi soci quando era a capo della LegaCoop. Quella stessa responsabilità che hanno e che fingono di non avere le varie confederazioni di categoria. Se queste confederazioni occultano questa responsabilità è semplicemente perché non possono negare, non possono evitare la commistione tra amministrazione pubblica e mondo degli affari. Essi la ritengono necessaria e vitale per la loro sopravvivenza.
In questo senso l’inchiesta “Terra di mezzo” deve far riflettere non solamente sui controlli nell’affidamento degli appalti ma deve far riflettere sull’eventualità di un cambio di rotta della politica. Oggi si deve ripensare tutta l’idea di esternalizzazione dei servizi di competenza dell’amministrazione pubblica. Si deve avviare un movimento d’opinione che richieda che i servizi alla cittadinanza come la sanità, l’istruzione e la qualità della vita siano erogati direttamente dal pubblico e non più da un privato, anche se questo è rappresentato dal più sano e giusto modo di fare impresa, quello della cooperativa.