foto de L’Italia che Cambia
articolo scritto da Francesco Bevilacqua
In occasione del suo viaggio a Bologna, Rob ha incontrato studenti dei licei e dell’università, i maggiori rappresentanti istituzionali del Comune e dell’Alma Mater, mass media, attivisti e semplici cittadini. Come un vento rinfrescante, con l’ironia e la semplicità che lo contraddistinguono, ha portato a tutti ottimismo ed entusiasmo attraverso la forza dell’esempio.
I suoi incontri infatti, sono sempre stati caratterizzati non solo da spiegazioni teoriche dei nuovi modelli che la transizione cerca di costruire e insediare, ma anche da testimonianze, case history, con tanto di foto e filmati, di ciò che i transizionisti stanno facendo in giro per il mondo.
Così, davanti alle espressioni curiose e interessate del sindaco Virginio Merola e del prorettore Dario Braga, il papà della Transizione ha raccontato delle edible bus stops di una linea di Londra, ovvero le fermate del bus “commestibili”, cioè corredate di piccoli orti con verdure piantate e coltivate dai residenti della zona a disposizione degli utenti dell’autobus. Oppure del Bristol Pound di cui abbiamo parlato all’inizio, la moneta complementare di Bristol, che dopo aver avuto l’approvazione della Bank of England, viene ora accettata da più di 650 negozi e ha un sistema di pagamento elettronico e on-line. O ancora, il Local Entrepreneur Forum, un tavolo che favorisce l’incontri di investitori e imprenditori che vogliono avviare attività sociali, sostenibili, resilienti e finalizzate a creare benessere nel territorio.
Sono queste iniziative che possono essere ricondotte all’idea della REconomy. “Verso il 2010 – racconta Rob in proposito –, è emerso questo concetto. Abbiamo capito che la transizione era una cosa seria e ambiziosa, perché ci chiede di reinventare il modo con cui ci alimentiamo, produciamo energia, viviamo. Per questo motivo, era necessario creare anche un nuovo modo di fare economia: generare nuovi posti di lavoro, avviare nuove attività di imprenditoria sociale, trovare nuove modalità di investimento del denaro. C’era bisogno di canalizzare le risorse al fine di rendere possibile nel mondo reale questo cambiamento.”
Parallelamente, si è sviluppato l’aspetto della transizione interiore: «La transizione non è solo pannelli solari e carote biologiche! C’è bisogno di creare una cultura resiliente e sana del lavoro di gruppo, allo scopo di risolvere gli storici problemi legati all’attivismo, che è soggetto a un alto rischio di bruciarsi dopo la spinta iniziale. Per questo motivo abbiamo cominciato a chiederci come potevamo progettare la nostra attività in modo da sostenerci a vicenda e questa idea della transizione interiore è stata per molti aspetti il punto di svolta. Spesso, quando viaggio e incontro le persone, mi sento dire: “la transizione è fantastica, bravo Rob, hai fatto una cosa splendida!”. Ma non li ho fatti io tutti quei progetti, in Brasile, a Brixton, a Bologna, in Giappone. Ovunque la risposta che vedo è che la transizione si adatta al territorio e alle passioni delle persone che lo abitano. Io sono un po’ come un’ape che se ne va in giro a raccontare storie. E adesso ne avrò una in più di cui parlare e riguarderà ciò che state facendo voi a Bologna, in Italia».
Già, l’Italia… «Qui l’economia è un disastro e continua a peggiorare. Però la vedo come un’opportunità, una possibilità da parte del vostro paese di posizionarsi come prima economia post-crescita. Se solo fossimo capaci di abbandonare l’obiettivo della crescita, la pretesa tornare a un’epoca impossibile. Qui c’è una cultura del cibo straordinaria, ci sono enormi potenzialità per le energie rinnovabili, grandi capacità manuali e pratiche. Basta guardare dalla giusta prospettiva e l’Italia potrebbe diventare la Silicon Valley di una nuova economia». Questo è un invito. Di più, è un’esortazione, quasi una sfida che ci viene posta. Gli strumenti ci sono, le potenzialità e le risorse anche. Adesso spetta solo a noi.
Rob ci lascia con una conclusione che tradisce lo squisito british humor con cui ha conquistato tutti in giro per il mondo, ma che cela anche una grande verità. “Non c’è garanzia che il lavoro che stiamo facendo abbia l’effetto che vogliamo. Del resto, se ci fosse la certezza che andrà tutto bene sarebbe noioso e non ci sarebbe motivo di farlo. È qualcosa che sentiamo di dover fare anche, soprattutto, perché non sappiamo come andrà a finire.”