In occasione del 25 anniversario della caduta del muro di Berlino, questa settimana vogliamo parlare dei muri che dividono il mondo. Nella prima parte di questo approfondimento, avevamo parlato della barriera di separazione israeliana, della barriera di confine tra Stati Uniti e Messico e del muro marocchino nel Sahara Occidentale. Oggi vogliamo continuare il nostro viaggio attraverso quei muri che ancora oggi, alla fine del 2014, in un mondo sempre più globalizzato ancora esistono e resistono.
Sono più di 50 i muri che dividono Paesi, famiglie, comunità, culture, religioni e popolazioni, ma vediamo quali sono quelli più controversi, più impressionanti e contestati oggi. Dall’Europa, all’Africa, alle Americhe, al Pacifico, gli esseri umani continuano ad erigere frontiere come mai nella storia prima d’ora. Tentativo di soluzione ai conflitti, oppressione, occupazione e apartheid, sono questi i muri di oggi.
L’ultimo muro d’Europa, quello tra Grecia e Turchia
Il muro di Evros, al confine tra Grecia e Tuchia, è stato costruito dal governo greco nel 2012 per fermare l’immigrazione clandestina alla frontiera terrestre tra Grecia e Turchia. Segno di un continente che si chiude verso sud (e non più verso est), questa barriera, una recinzione costata alla Grecia 3 milioni di euro, avrebbe dovuto comprendere anche un fossato, ma a causa dei costi molto elevati, la Grecia ha deciso di mantenere soltanto una doppia barriera di reticolato e filo spinato alta quattro metri. L’Unione Europea non ha finanziato questa barriera (ritenendola un “affare interno”) ma non l’ha messa in discussione, e altri Paesi, come la Francia, hanno incoraggiato la sua costruzione. Lunga 12 chilometri e mezzo, si estende lungo il confine naturale del fiume Evros, uno dei confini più oltrepassati negli ultimi dieci anni (Frontex ha stimato una media di 250/300 tentativi di ingresso al giorno) il confine naturale tra Europa ed Asia. Da qui arrivano immigranti da Afghanistan, Pakistan, Armenia, Kurdistan, Iraq, Siria, Somalia, Egitto e dal Nord Africa.
Sempre più dura diventa la realtà dei migranti in Grecia, dove da qualche anno è cresciuto a dismisura un sentimento forte di xenofobia e ostilità verso gli immigrati e le comunità rom. Numerosi sono stati gli attacchi razzisti da parte dei membri del partito di estrema destra Alba dorata.
Il muri delle enclavi spagnole in Nord Africa, Melilla e Ceuta
Altro esempio del fallimento europeo in fatto di gestione della crisi umanitaria è quello di Ceuta e Melilla, le enclavi spagnole in Nord Africa. Fino agli anni ’90, il confine tra il Marocco e queste città spagnole era appena percettibile, vi erano poche barriere fisiche e un flusso continuo di persone e merci. Marocchini e spagnoli andavano e venivano senza restrizioni, il che rendeva difficile capire esattamente dove finiva un Paese e iniziava l’altro.
Ma quando l’immigrazione di massa dall’Africa occidentale verso l’Europa è decollata, la richiesta europea di una barriera fisica permanente ha portato allo sviluppo della recinzione che oggi si erige per più di sei metri, con sensori hi-tech, filo spinato e guardie armate 24 ore su 24. Qui è dove la Fortezza Europa incontra l’Africa del nord.
Il prezzo di questi muri metallici, 30 milioni di euro, è stato pagato dalla Comunità Europea e sono formati da barriere parallele di 6 metri di altezza, con posti di vigilanza alternati. Dei cavi posti sul terreno connettono una rete di sensori elettronici acustici e visivi. È dotata di un’illuminazione ad alta intensità, di un sistema di videocamere di vigilanza a circuito chiuso e strumenti per la visione notturna. La barriera è lunga 8 km a Ceuta e 12 km a Melilla ed è costata all’Ue 140 milioni di investimenti in 15 anni.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha denunciato recentemente la proposta avanzata dal governo spagnolo di legalizzare i respingimenti automatici di coloro che cercano di oltrepassare le recinzioni di confine per entrare nelle sue enclavi in Nord Africa. La proposta introduce il concetto di “rifiuto alla frontiera” (“rechazo en frontera” in spagnolo) e mira a legalizzare l’attuale prassi dei respingimenti. Una pratica simile non permetterebbe più ai migranti in fuga da persecuzioni e conflitti di fare richiesta di asilo.
I 99 muri di Belfast
Sono 99 i muri che dividono Belfast. Li chiamano “Peace Lines” (muri della pace), un ossimoro quando si parla di muri che dividono religioni, classi sociali e popolazioni. In questo caso la separazione è quella tra le comunità protestanti e quelle cattoliche. Sono stati costruiti a partire dal 1969 dopo lo scoppio della fase più recente del conflitto nordirlandese, anche detto Troubles. I residenti di Short Strand, una parte cattolica di East Belfast, per difendersi dagli attacchi dei lealisti crearono dei muri di protezione che furono in seguito rinforzati e ai quali si aggiunsero nuovi tratti di barriere fino a raggiungere gli attuali 15 km di lunghezza, gran parte dei quali tra Belfast e Derry.
Costano allo stato circa 1 miliardo di sterline l’anno e sono alti fino a 8 metri, composti di metallo, cemento e di reticolati di filo spinato. Hanno dei cancelli sorvegliati dalla polizia che vengono chiusi di notte. Dividono e segregano le due comunità che hanno ben pochi contatti l’una con l’altra perché la paura gioca ancora un ruolo molto importante. I cittadini si sentono al sicuro al riparo delle barriere, che da quasi mezzo secolo li proteggono dai lanci di sassi, bottiglie e petardi della parte avversa. La povertà persistente mantiene vivo il risentimento e le barriere psicologiche tanto quanto quelle fisiche. Le condizioni di vita dei quartieri popolari infatti non sono migliorate rispetto a quarant’anni fa e questo impedisce lo sviluppo di quel progresso che porterebbe ad abbattere i muri invece che nascondersi dietro di essi.
Dopo gli Accordi del Venerdì Santo, che hanno spento il conflitto almeno apparentemente e trovato una soluzione definitiva nel primo governo di coalizione fra i repubblicani del Sinn Fein e gli unionisti del Dup, nel 2007, nessuna delle barriere che dividono le due comunità è stata distrutta. Anzi, ne sono sorte di nuove e quelle esistenti sono state rinforzate, segno che questi muri hanno davvero poco a che vedere con la pace. Oggi le Peace Lines sono una delle principali attrazioni turistiche della città.
La barriera tra le due Coree
La Guerra di Corea (1950-1953) separò la Corea del Nord da quella del Sud con la zona demilitarizzata o ZDC. L’attrito, creato alla fine della Seconda Guerra Mondiale da Stati Uniti e Unione Sovietica che occuparono l’area e dividendola in zone d’influenza lungo il 38° parallelo, si prolungò durante i decenni successivi a causa di divergenze politiche sociali ed economiche che hanno mantenuto i due stati tecnicamente in conflitto dalla Guerra Fredda fino ad oggi.
La DMZ si estende per 155 miglia da est a ovest ed è fiancheggiata lungo il suo perimetro nord e sud da recinzioni con filo spinato. Una fascia di quattro chilometri, disseminata di mine e sorvegliata da oltre 1.000 posti di guardia, per impedire invasioni e defezioni. Queste barriere sono state erette nel 1953 dopo che l’armistizio tra le due Coree ha definito l’esatto confine entro cui entrambe le parti dovevano ritirarsi. La recinzione è regolarmente pattugliata da soldati che indossano contrassegni speciali per indicare al nemico che le loro intenzioni non sono ostili. I soldati di entrambe le parti possono pattugliare all’interno della DMZ, ma non è loro permesso attraversare la linea di demarcazione militare che divide le due zone.
Come spiega The Guardian, al confine si trovano numerosi posti di sorveglianza e quasi due milioni di soldati nascosti tra le colline e le montagne vicine, di questi circa 640.00 sono sudcoreani e 28.000 degli Stati Uniti. Gli esperti ritengono circa il 60% delle risorse militari della Corea del Nord, tra cui 600.000 truppe, armi convenzionali e nucleari, si trovano nell’area della DMZ. Centinaia di sudcoreani, nordamericani e nordcoreani sono stati uccisi durante scontri nel corso degli ultimi 60 anni.
Molti altri sono i muri che dividono il mondo. L’Arabia Saudita ha costruito recentemente un muro di cemento al confine con lo Yemen, attrezzato con le più sofisticate e moderne tecnologie di sorveglianza, per “proteggere” il Paese dagli immigrati provenienti dallo Yemen.
Il Botswana ha eretto una barriera elettrica metallica, lunga 500 chilometri, al confine con lo Zimbabwe. Un muro di due metri di altezza edificato con lo scopo di prevenire la diffusione di malattie infettive tra il bestiame ma che effettivamente voleva essere una barriera contro i civili in fuga dallo Zimbabwe.
Tra India e Pakistan esiste una linea di demarcazione militare chiamata “Linea di Controllo”, che si estende per 3.300 chilometri e dal 1949 divide la regione del Kashmir in due zone: quella sotto il controllo indiano e quella sotto il controllo pachistano.
Il conflitto siriano ha portato invece alla costruzione di muri nella città di Homs per dividere la popolazione sulla base della religione e della fedeltà al regime di Assad, mentre in Brasile, nel 1978, sono stati eretti muri per edificare un santuario metropolitano, Alphaville, che difendesse l’elitè metropolitana dalla criminalità della città.
Altri muri sono stati costruiti tra Thailandia e Malesia, Israele ed Egitto, Iran e Pakistan e la lista potrebbe continuare ancora a lungo a dimostrazione che il muro di Berlino e la storia non hanno in fondo molto sulla risoluzione dei conflitti. Mentre il muro di Berlino con la sua caduta accendeva la speranza di un mondo libero e senza frontiere, altre barriere venivano erette con lo scopo di “portare la pace”. Tuttavia nessuna pace è mai arrivata con un muro o una frontiera. Mai un muro potrà risolvere un conflitto, ma solo placarlo temporaneamente, quando non lo alimenta creando attriti e risentimenti sempre maggiori.
Un mondo fatto di muri e frontiere in cui gli esseri umani sono segregati, bloccati o semplicemente nascosti non sarà mai un mondo fatto di pace, nonviolenza e cooperazione. In un momento storico come questo, in cui la crisi umanitaria aumenta di pari passo ai conflitti, i governi e gli stati dovrebbero invece optare per soluzioni che guardano alla cooperazione e alla solidarietà.