“La colonizzazione sionista della terra di Israele può solo arrestarsi o procedere a dispetto della popolazione nativa palestinese. Questo significa che può procedere e svilupparsi solo con la protezione di una potenza indipendente, dietro un muro di ferro che i nativi non potranno penetrare” (Vladimir Jabotinsky, fondatore di “Irgun”, 1923).
STORIA VECCHIA – Potrebbero essere sufficienti queste parole, messe nero su bianco dal leader di “Irgun ” – organizzazione sionista, armata e clandestina, nel lontano 1923 per comprendere che le “security reasons ” opposte dal governo israeliano per giustificare la costruzione del muro, con la sicurezza c’entrano ben poco. È piuttosto una palese operazione politica – così come lo è l’insediamento delle colonie illegali in Cisgiordania – di annessione territoriale.
Un modo per spingere il popolo palestinese sempre più nell’angolo di terra che gli resta – frammentato – chiudendolo dentro una gabbia a cielo aperto. Ampia, ma pur sempre una gabbia.
La decisione di edificare una “barriera difensiva”, lungo i confini dello stato di Israele – così come stabiliti dalla Green Line negli accordi di pace del 1967, contenuti nella Risoluzione 242 delle Nazioni Unite – viene presa dall’allora primo ministro, Ariel Sharon, nell’aprile del 2002. La motivazione apportata è la necessità per Israele di difendersi dal terrorismo, e vista la situazione il gioco è facile: la seconda Intifada è scoppiata da poco, e non c’è momento migliore per dare il via ad un progetto dal sapore antico.
Da allora il Muro corre imponente in Palestina, invalicabile barriera di cemento e ferro che si stende a perdita d’occhio lungo 450 chilometri sugli 800 pianificati. Un mostro che non solo rende impossibile il passaggio dai Territori Occupati palestinesi a quelli israeliani, ma che divide soprattutto palestinesi da altri palestinesi.
È sufficiente dare un’occhiata alle cartine, per accorgersi di come il Muro non solo non segua affatto i confini di Israele, ma si spinga ben oltre i limiti fissati dalla Green Line . I lavori per la sua costruzione sono iniziati nell’estate del 2002 intorno alla città di Zububa, estremo nord della Cisgiordania, e nel luglio del 2003 è stato completato il settore nord, che raggiunge la città di Qualqilya. La parte settentrionale del tracciato è lunga 145 km: 132 km costituiti da un recinto elettronico mentre i restanti 13 km in cemento armato. I lavori sono, ovviamente, tuttora in corso.
I NUMERI DELL’OCCUPAZIONE – Alto 8 metri e circondato da fossati, larghi dai 60 ai 100 metri, il Muro è protetto da reti di filo spinato e torri di controllo poste ogni 300 metri. Lungo il suo tracciato sono state costruite strade di aggiramento e percorrenza riservate ai coloni, una quarantina di valichi agricoli e moltissimi check point, sia pedonali che per veicoli. Per la realizzazione del solo tratto settentrionale, è stato già annesso il 2% del territorio palestinese della Cisgiordania, al quale vanno aggiunti i tratti necessari ad inglobare 11 colonie illegali, dove vivono all’incirca 20mila israeliani. Parallelamente, oltre alla costruzione del tracciato stabilito nei piani, ne è stato previsto un tratto aggiuntivo per annettere alcuni macro insediamenti, tra cui Ariel, Gush Etzion e Beit Arieh Elkana.
Ad oggi il12% della popolazione palestinese della Cisgiordania si viene a trovare incastrata tra la Green Line e il muro, completamente isolata dal resto dei Territori. Oltre 200 palestinesi di Gerusalemme sono poi già adesso tagliati fuori dal resto della Palestina. Come se questo non bastasse, migliaia di contadini sono stati privati di risorse fondamentali, perché la barriera di cemento ha l’ulteriore colpa di separare abitazioni e campi coltivati, oltre ad annettersi le zone più fertili, ricche di risorse acquifere.
Questo grava, com’è ovvio, sull’economia palestinese, che privata anche dei più basilari scambi è strozzata, con punte di disoccupazione e chiusura dei negozi che in alcuni casi tocca il 78%. La libertà di movimento, ridotta ai minimi termini, è aggravata dalla presenza di oltre 500 chek point disseminati lungo tutta la Cisgiordania. Eppure c’è un bel cartello rosso vermiglio che si erge laddove sono stati fissati i confini tra Israele e i Territori palestinesi: “Zona A” c’è scritto, “vietato l’accesso all’esercito israeliano”. Il paradosso che si fa reale, ecco quello che accade laggiù, in Cisgiordania.
La città di Qualqilya ne è un esempio concreto: completamente circondata dal muro per avvolgere nel cemento le colonie di Alfe Menashe e Zufin, strozzata dai numerosi check point, rappresenta un valido modello di come il muro separi i palestinesi dalla loro stessa vita: il distretto urbano oggi risulta infatti completamente separato dalle terre coltivate, annesse dal Muro per il 50%. Ricapitoliamo: coloni (illegali) insediati sul territorio palestinese (illegalmente) che necessitano la presenza armata (illegale) dell’Esercito israeliano, che a sua volta è coadiuvato nell’impresa dalla costruzione di un muro (illegale). Un bel quadretto di violazione delle regole, che grava sulle spalle di una vita resa impossibile al popolo palestinese, di fronte al silenzio – se non alla compiacenza – dei governi mondiali. Un bel colpo, direbbe oggi se potesse Jabotinsky. Un passo avanti non indifferente nella realizzazione di un progetto antico.
LE VIOLAZIONI DELLA LEGGE – Nel luglio 2004, la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha condannato l’illegalità del muro denunciando che: “L’edificazione del Muro che Israele, potenza occupante, è in procinto di costruire nel territorio palestinese occupato, ivi compreso l’interno e intorno a Gerusalemme Est, e il regime che gli è associato, sono contrari al diritto internazionale”.
Nel 2005 persino la Corte Suprema israeliana ha giudicato all’unanimità che la parte della barriera di separazione edificata in territorio occupato è illegale. È il caso che abbiamo raccontato con il villaggio di Bil’in. Il muro costituisce inoltre una violazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese, come definiti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani quali, fra gli altri, il diritto alla libertà di movimento, al lavoro, all’abitazione in luoghi dignitosi e sicuri, all’accesso ai servizi pubblici, al possesso della terra. Rappresenta anche una violazione della IV Convenzione di Ginevra(art. 53), per la demolizione di case, la distruzione di terre e proprietà, e perché si delinea come forma di punizione collettiva. Viola poi un numero ben nutrito di trattati, accordi e risoluzioni internazionali, sottoscritte dallo stesso Israele.
Costituisce, infine, un crimine contro l’umanità, in quanto viola la Convenzione Internazionale per la soppressione e la punizione del crimine di Apartheid. Questo perché se il Muro sarà terminato, annettendo anche Gerusalemme e la zona della Jordan Valley (al confine della Giordania, e fertilissima) andrà a creare in Cisgiordania tre aree palestinesi non comunicanti fra loro e circondate dalla barriera, di fatto conformi alla definizione di “bantustan ” di sudafricana e triste memoria. E in questo quadro, gia di per sé tragico, stiamo tralasciando il muro che corre intorno a Gaza, prigione a cielo aperto strangolata dall’embargo per 1 milione e mezzo di palestinesi, privati di ogni diritto, impossibilitati a muoversi da quella che è divenuta la zona più piccola, ma più densamente popolata del mondo. Nonostante tutte le condanne espresse, la costruzione del muro nelle terre palestinesi continua. Una sola domanda sorge spontanea di fronte a tutto questo: se fosse qualunque altro Stato, e non Israele, a commettere questo genere di violazioni e soprusi, la comunità internazionale e i governi del mondo, reagirebbero con la stessa colpevole indifferenza?
Di Cecilia Della Negra