Dilaga ormai in Italia la caccia, simbolica o reale, ai capri espiatori di sempre: rom e sinti, migranti e rifugiati. Pur variando luoghi e personaggi, comune è lo schema narrativo, avallato anche da quotidiani mainstream. A giustificare o sminuire la violenza dei «residenti» e dei «cittadini comuni» si propalano spesso leggende e false notizie, spacciate come vere anche da organi di stampa prestigiosi.
Ciò che è accaduto nella borgata romana di Tor Sapienza costituisce un precedente assai grave. Mi riferisco allo svuotamento forzoso, a furor di assalti razzisti, del Centro di accoglienza che ospitava abitualmente i più vulnerabili tra i rifugiati, soprattutto minori. I facinorosi che, incappucciati e al grido di «bruciamoli tutti!», a più riprese hanno attaccato il Centro, con lanci di pietre e petardi, per alcuni giorni sono stati rappresentati, anche dalla grande stampa, come poveri «cittadini esasperati».
E le dicerie a proposito di scippi e aggressioni subite, tentati stupri — dei quali non v’è traccia di prova né denunce formali — sono state puntualmente riprese senza alcuna verifica.
Tra i pochi che hanno osato violare da subito questo schema narrativo vi sono la Comunità di Sant’Egidio e l’Arci, e tra gli organi di stampa Il Redattore Sociale che già l’11 novembre svelava il segreto di Pulcinella: cioè l’istigazione di estrema destra delle spedizioni punitive.
A strumentalizzare il disagio economico e sociale, dirottandolo verso gli alieni, v’è la presenza di «gruppi neofascisti e figure, vecchie e nuove, dell’estrema destra», dichiarava al Redattore Gianluca Peciola, capogruppo di Sel in Campidoglio.
Pochi, fra i commentatori che hanno insistito – con qualche ragione, certo – sul sentimento collettivo di abbandono e insicurezza che vivono i residenti, si sono soffermati a considerare le biografie, la condizione, i sentimenti dei capri espiatori: in gran parte giovani, fuggiti da povertà, persecuzioni e violenze, approdati rischiosamente in Europa dopo viaggi da incubo, costretti a una vita alienante e oggi, di nuovo, rifiutati, minacciati, terrorizzati.
Lo schema di cui ho detto s’intreccia con un’altra retorica abusata: quella, in apparenza non-razzista, della «guerra tra poveri», secondo la quale aggressori e aggrediti sarebbero vittime simmetriche.
Esemplare in tal senso è ciò che è accaduto alla Marranella, quartiere romano del Pigneto-Tor Pignattara, dopo l’assassinio di Muhammad Shahzad Khan, il pakistano di ventotto anni massacrato a calci e pugni da un diciassettenne romano, la notte del 18 settembre scorso. Subito dopo, un centinaio di persone improvvisarono un corteo di solidarietà verso il giovane arrestato, non senza qualche accento di rammarico per «questa guerra tra poveri», insieme con cartelli e slogan quali «Viva il duce» e «I negri se ne devono andare». Più tardi, perfino qualche soggetto politico decisamente di sinistra si è spinto ad affermare che i due sarebbero vittime dello stesso dramma della povertà e del degrado. Come se il livello di potere, la posizione sociale, la responsabilità morale fossero i medesimi, tra il bullo di quartiere che uccide, istigato e spalleggiato dal genitore fascista (poi arrestato anch’egli), e la sua vittima inerme: già annientata dalla solitudine, dalla perdita del lavoro e dell’alloggio, dal terrore di perdere pure il permesso di soggiorno, dalla lontananza dalla moglie e da un figlio di tre mesi che mai aveva potuto vedere. Una perfetta illustrazione, quel delitto, di guerra contro i più inermi tra i poveri.
Certo, Roma è paradigmatica per le cattive politiche che nel corso degli anni hanno prodotto ghettizzazione e degrado urbano di tanta parte dell’hinterland. E, si sa, più che mai in tempi di crisi, il disagio economico e sociale e il senso di abbandono alimentano risentimento e ricerca del capro espiatorio.
Ma a socializzare, manipolare, deviare il rancore collettivo c’è sempre qualche attore politico: di destra e di estrema destra, solitamente e in particolare Casa Pound e la Lega di Salvini e Borghezio. Che la giunta Marino, come altre giunte «democratiche», ne prenda atto e provveda, prima che sia troppo tardi. Che la sinistra politica e sociale nelle periferie ritorni, come un tempo, a fare lavoro politico.
Di Anna Maria Rivera per Il manifesto
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