I film sull’abbandono della Terra riflettono il disfattismo politico della nostra epoca: adattarsi al collasso climatico è meglio che fermarlo.
Di George Monbiot per The Guardian, martedì 11 novembre 2014
«È come se avessimo dimenticato chi siamo», si lamenta l’eroe di Interstellar. «Esploratori, pionieri, non guardiani... Non siamo fatti per salvare il mondo, siamo destinati a lasciarlo». Questa potrebbe essere l’epigrafe della nostra epoca.
Non fraintendetemi, Interstellar è un magnifico film, fedele alle più ricche tradizioni della fantascienza, stupefacente dal punto di vista visivo ed uditivo. Guardate oltre le sciocchezze obbligate e troverete una toccante analisi sulla paternità, sulla separazione e sull’invecchiamento. È anche un’esposizione classica di due dei grandi temi della nostra epoca: l’ottimismo tecnologico e il disfattismo politico.
La Terra e i suoi abitanti si trovano ad affrontare una catastrofe planetaria, causata da “sei miliardi di persone, ognuna delle quali vuole avere tutto“, che si traduce stranamente in una successione di piaghe che distruggono le colture di tutto il mondo e succhiano l’ossigeno dell’atmosfera. (Quando i guadagni principali sono negli Stati Uniti non ci si può permettere di mettersi contro i media menzionando il cambiamento climatico. La ruggine, un sostituto ovvio, ha probabilmente evitato milioni di dollari di incassi persi).
Il collasso della civilizzazione all’inizio del film è montato in parallelo con interviste che mostrano i reduci della tempesta di sabbia degli anni ‘30. I loro volti provati prefigurano i temi dell’invecchiamento e della perdita, ma ci ricordano anche involontariamente di un mondo di programmi politici. Grandi follie sono state commesse, ma grandi cose coraggiose sono state fatte per rimediare: si pensi al New Deal e al Civilian Conservation Corps. Quel mondo è tanto diverso dal nostro quasi quanto i pianeti visitati dagli astronauti di Interstellar.
Lasciano la Terra per trovare un posto in cui gli esseri umani possano sfuggire o, se non funziona, un mondo in cui si possa depositare un carico di embrioni congelati. Richiede un certo impegno, quando si esce dal cinema, ricordare che tali fantasie sono prese sul serio da milioni di adulti, che le considerano una valida alternativa per i problemi che dobbiamo affrontare sulla Terra.
La Nasa gestisce un sito web dedicato all’idea. Essa sostiene che gigantesche astronavi «potrebbero essere i luoghi ideali per vivere; delle dimensioni quasi di una città di mare della California, che offrono svaghi in assenza di gravità, una vista fantastica, libertà, spazio vitale a palate e grande ricchezza». Naturalmente, nessuno potrebbe uscire, se non per entrare in un’altra astronave e il minimo malfunzionamento potrebbe causare l’annientamento immediato. Ma «le colonie in orbita terrestre avrebbero una delle viste più belle del nostro sistema solare – la Terra viva e in continua evoluzione». Potremmo guardare indietro e ricordare quanto fosse stupenda.
E poi ci sono i soldi da fare. «La colonizzazione dello spazio è al suo interno un business immobiliare», continua il sito della Nasa. «Coloro che colonizzeranno lo spazio potranno controllare vaste terre, enormi quantità di energia elettrica e risorse materiali quasi illimitate. [Questo] creerà ricchezza oltre la nostra immaginazione più vivida, e potere – speriamo in un buon uso, piuttosto che in uno cattivo». In altre parole, non ci lasceremmo solo la Terra alle spalle, ma anche noi stessi.
C’è una caratteristica comune in queste fantasie: la loro mancanza di immaginazione. Voli selvatici di fantasia tecnologica sono accompagnati da una stolida incapacità di immaginare la vita di coloro che potrebbero abitare tali sistemi. Persone che considererebbero intollerabile l’idea di vivere nel deserto del Gobi – dove anche un agente immobiliare potrebbe notare che c’è ossigeno, ozono, pressione atmosferica e 1g di gravità – entusiaste di vivere su Marte. Chi pensa che la vita umana sulla Terra finirà a causa del potere, dell’avidità e dell’oppressione, crede anche che saremmo in grado di sfuggire a queste forze se ci trovassimo in contenitori a pressione controllati da tecnici, in cui saremmo intrappolati come girini in un barattolo di marmellata.
Se la colonizzazione dello spazio è impossibile oggi – dove neppure Richard Branson con tutti i suoi miliardi potrebbe portare la gente in modo sicuro oltre l’atmosfera – come potrà sembrare in un mondo che è precipitato così a fondo nel disastro che lasciare la Terra per un grumo di pietre senz’aria e senza vita è percepita come una buona opzione? Saremmo fortunati in queste circostanze a possedere i mezzi per fare i mattoni.
Solo spiegando questo come un impulso religioso possiamo evitare la conclusione che coloro che attendono con gioia questo futuro sono folli. Così come è più facile pregare per la vita dopo la morte di quanto non lo sia affrontare l’oppressione, questa fantasia ci permette di sfuggire alle complessità della vita sulla Terra per un paese delle meraviglie stellato che va al di là della politica. In Interstellar, come in molte altre versioni della storia – si pensi a Battlestar Galactica e a Red Planet – lo spazio è il paradiso, supervisionato da una tecnologia benigna, popolato donando agli angeli bombole d’ossigeno.
La colonizzazione dello spazio è una versione estrema di una convinzione comune: che sia più facile adattarsi ai nostri problemi piuttosto che risolverli. All’inizio di quest’anno, l’economista Andrew Lilico ha sostenuto nel Telegraph che non possiamo permetterci di evitare l’escalation dei cambiamenti climatici e che invece dobbiamo imparare a convivere con essi. È stato sfidato su Twitter a spiegare in che modo le persone ai Tropici potrebbero adattarsi ad un mondo in cui ci saranno quattro gradi in più di riscaldamento globale. Ed ha risposto: «Immagino che i Tropici si adatteranno ad un mondo con quattro gradi in più essendo terre desolate in cui vivono poche persone. Perché questa non può essere un’opzione?»
Rileggendo l’articolo di Lilico alla luce di questo commento, mi sono reso conto che ha fatto leva sulla parola “noi”. Infatti il titolo diceva: «[Noi] non siamo riusciti a prevenire il riscaldamento globale, quindi [noi] dobbiamo adattarci ad esso», i due “noi” in questa frase casi si riferiscono a persone diverse. Noi che viviamo nel mondo ricco e non possiamo tollerare nessuna tassa che favorica l’energia verde, o nessun regolamento che scoraggi il consumo di combustibili fossili. Non ci possiamo adattare neanche ad un centesimo in più di tasse. Ma l’altro “noi”, che si rivela essere un “loro” – il popolo dei Tropici – può e deve adattarsi alla perdita delle proprie case, della propria terra e della propria vita, in quanto intere regioni diventeranno deserti. Perché questa non può essere un’opzione?
Le vite dei poveri appaiono inimmaginabili alle persone nella posizione di Lilico, come la vita di coloro che potrebbero spostarsi su un altro pianeta o una stazione spaziale. Quindi, ridurre la quantità di energia che consumiamo e sostituire i combustibili fossili con altre fonti – semplice ed economico paragonato a tutte le altre opzioni – è inconcepibile e scandaloso, mentre l’abbandono di massa di gran parte della superficie abitata del mondo è una richiesta realistica e ragionevole. «Non è contrario alla ragione preferire la distruzione di tutto il mondo al graffio del mio dito», diceva David Hume, filosofo del 18° secolo, e qui vediamo la sua contemplazione concretizzata.
Ma almeno Lilico potrebbe spiegare cosa intendeva, a differenza della maggior parte di quelli che parlano con disinvoltura di adattarsi al collasso climatico. Trasferire le città sulle alture? Spostare strade e ferrovie, deviare i fiumi, spopolare le nazioni, lasciare il pianeta? Lasciamo perdere i dettagli. La tecnologia, il nostro dio interstellare, saprà risolvere la cosa, un giorno, in qualche modo.
Ottimismo tecnologico e disfattismo politico: è questa la formula per rimandare scelte difficili ad un limbo onnipresente di vita dopo la morte planetaria. Non c’è da stupirsi che sia così popolare.
Twitter: @georgemonbiot.
Traduzione dall’inglese di Irene Tuzi