Lui, Andrea Strozzi, ha lasciato un lavoro sicuro in ambito economico e ha accolto una vita intera di nuove opportunità scegliendo di provare ad essere una persona “sostenibile”. La sfida è di quelle decisive, di quelle che fanno mancare il fiato un attimo prima di spiccare il volo, di compiere il balzo. Ma poi cosa vorrà mai dire essere una “persona sostenibile”?
di Giovanni Fez
Quanti di noi hanno pensato almeno una volta che è arrivato il momento di cambiare, che non si può vivere stritolati dall’urgenza di lavorare-guadagnare-consumare, che il tempo di vita non viene vissuto ma calpestato? Quanti di noi desiderano prendersi respiro, guardarsi intorno, comprendere a fondo ogni minuto dell’esistenza per farlo nostro e condivisibile con chi amiamo? Quanti di noi hanno già capito che i ritmi di oggi, i meccanismi dell’oggi, gli slogan della crescita a ogni costo, del consumismo a prescindere non funzionano e non fanno che lacerarci distogliendoci da altro, più importante? Anche Andrea si è posto un sacco di domande, poi ha preso la sua decisione. Ascoltiamolo, perché è tempo ben speso.
Andrea, tu parli della necessità di arrivare ad un’idea di economia che pensi al benessere delle persone da realizzarsi non con i soli beni materiali da accumulare e moltiplicare, ma con qualcosa d’altro che nutra corpo e spirito in una visione non semplicemente e unicamente utilitaristica. Lo insegni e lo spieghi nei tuoi corsi: come realizzarla, allora, questa utopia?
«Innanzitutto, al posto della parola “utopia”, che evoca di per sé orizzonti quasi sempre irraggiungibili, preferirei usare la parola “possibilità”. O, ancor meglio, parlerei di inevitabile opportunità.
La bioeconomia, di cui curiosamente quasi nessuno parla (almeno sui circuiti mainstream), è una disciplina perfettamente integrata e dalle enormi potenzialità applicative, che fu introdotta negli anni Settanta da Nicholas Georgescu-Roegen, una di quelle personalità di cui ci fa dono la Vita e che, per la vastità dei temi che seppe trattare e per il tasso di innovazione delle sue proposte, risulta poi difficile incasellare in un ambito professionale univoco. Lui fu infatti un economista, un sociologo, un biologo, un filosofo e oggi, a distanza di vent’anni esatti dalla sua morte, possiamo certamente dire che non gli venne mai riconosciuto il Nobel, soltanto per la “scomodità” delle sue teorie. Che, chiariamolo fin da subito, quanto a completezza e robustezza dottrinaria, non hanno nulla da invidiare ai modelli economici classici che, in vigore da oltre due secoli, ci hanno condotto allo stato in cui siamo.
Ma vengo alla tua domanda. In base all’approccio bioeconomico, ogni processo produttivo è in tutto e per tutto concepito e trattato come un fenomeno naturale, proprio in considerazione delle sue inevitabili ripercussioni sull’ambiente circostante. Già da qui si capisce come si tratti di un approccio rivoluzionario, in quanto per la prima volta l’ecosistema non viene considerato come un “sottoinsieme” dell’economia, cioè un serbatoio da cui attingere risorse, ma è esattamente il contrario: in una visione olistica della fenomenologia umana, l’economia non è che una declinazione – per certi aspetti marginale – di un disegno assai più vasto, che ha nel benessere delle persone il suo fine ultimo. Una concezione diametralmente opposta a quella della cultura dominante, che vede invece nell’economia il mezzo e, soprattutto, il fine dell’attività umana. Con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.
Tra l’altro, se ci pensiamo, il prefisso “bio” viene ormai applicato a tutto: bioagricoltura, bioarchitettura, bioedilizia, bioregionalismo, biodiversità, biocarburanti, biodegradabilità, biodinamica, bioetica… per citare solo i primi che mi vengono in mente. Ma di bioeconomia finora non ne parla praticamente nessuno. Quando invece c’è lì, bello a disposizione, un intero modello già pronto e applicabile, al quale si tratterebbe solo di togliere qualche ragnatela, insegnarlo nelle scuole, nelle università e alle imprese».
Che senso ha andarsi a cercare una crescita esasperata e forsennata in nuovi mercati (ma nuovi dove?) per nuovi e più esasperati consumi? Ma se ha poco o niente senso, perché l’economia “convenzionale” e maggioritaria continua pervicacemente a intontirci con questo mantra?
«La risposta te la sei già data tu: non ha alcun senso, infatti. La schizofrenica ricerca di nuovi mercati in ogni zona del globo non sta facendo altro, a mio avviso, che certificare l’ormai imminente epilogo – almeno in Occidente – di questa “esperienza organizzativa umana” che ha avuto nome capitalismo. Questa rigida applicazione dell’economia, che dal 1989 ha definitivamente perso ogni contrappeso storico, ha infatti continuamente bisogno, per perpetuarsi, di una cosa sola: il consumismo. Ma, come tutte le cose inventate dall’uomo, anche il capitalismo ha un periodo di sopravvivenza limitato. Due secoli? Forse tre. Ad ogni modo, la favoletta è prima o poi destinata a finire. Le risorse vengono man mano esaurite. Prima quelle naturali, poi quelle monetarie e, da ultimo, quelle umane: le persone. Che, quando si rendono finalmente conto di cosa sia realmente importante per il loro benessere, perdono spinta, entusiasmo, motivazione. E cercano altro. Tornano cioè al significato originario del termine “economia”, che è “amministrazione dei beni domestici”».
Proviamo a essere massimamente concreti e pratici: supponiamo che io voglia da domani iniziare a condurre una esistenza quotidiana improntata alla bioeconomia, alla resilienza, alla sostenibilità, all’anticonsumismo. Disegnami una geografia possibile, dammi latitudine e longitudine, mettimi in condizione di fare un programma per ingranare la marcia.
«Massima concretezza: prendi un foglio di carta, una matita e fai sette colonne, una per ogni giorno della settimana. Poi ogni sera, sulla colonna di quel giorno, elenchi tutte le cose che hai fatto e che hanno sprecato energia. Per “sprecato” intendo che avresti potuto farle ugualmente, ma con un dispendio di energia inferiore.
Alla domenica sera, prendi in mano il foglio e fai un cerchio intorno ai cinque sprechi maggiori. Vai a lavorare tutti i giorni in auto, quando c’è magari una combinazione di mezzi pubblici che – alzandoti qualche minuto prima – ti consentirebbe ugualmente di raggiungere il lavoro? Acquisti prodotti alimentari che, pur coltivabili nelle tue zone, provengono invece da molto lontano? Per conversare con i tuoi amici, anziché andare ogni tanto a trovarli, scrivi in continuazione mail, usando smartphone, tablet e ogni altra diavoleria high-tech? Hai fatto il weekend al mare, in montagna, o in una città d’arte?
Sono alcuni comunissimi esempi che possono essere facilmente rimodulabili in chiave bioeconomica. Ovvio che, non essendo nessuno di noi nato ieri, sappiamo benissimo che molto spesso abbiamo i minuti contati, che non possiamo permetterci di prendere l’autobus mezz’ora prima, che è molto più comodo acquistare l’insalata già pulita e lavata nella busta di plastica al supermercato, che cliccare “I like” sulla pagina Facebook di un nostro amico è molto più sbrigativo che telefonargli o fargli visita di persona, e che ogni tanto, nel fine settimana, è sacrosanto cambiare aria e distrarsi un po’.
Tutto vero. Ma chiediamoci allora: perché siamo sempre a corto di tempo? Per quale motivo il tempo sembra essere ormai diventato la risorsa più preziosa di tutte? Perché, allora, lo sacrifichiamo per concederci tutte queste distrazioni, tutte quelle comodità energivore? Se a detta di tutti il tempo è la cosa più preziosa che abbiamo, perché dissiparlo così miseramente? In nome di che cosa? Ah, già! In nome di quei soldi che, lavorando, guadagniamo e che ci consentono poi di avere l’auto per andare al lavoro, di avere l’ultimo modello di iPhone, di fare il weekend a Lisbona. Il cerchio si è chiuso: consumiamo soldi ed energia per poter consumare altri soldi ed altra energia. Tutto questo, con quella valuta internazionale che si chiama “tempo”.
Una curiosità: tra la sue molteplici risultanze, il modello bioeconomico ha previsto una interessante formulazione del concetto di benessere. Pur essendo io per primo scettico sulla possibilità di codificare in una formula un qualcosa di così soggettivo come la percezione del benessere, è interessante notare come due dei tre principali “ingredienti” di questa formula siano aspetti che non hanno nulla a che fare con il paradigma utilitaristico neoclassico.
Tornando al foglio di carta, dunque, dopo aver spuntato le attività a maggior assorbimento energetico, occorre mettersi una mano sul cuore, l’altra mano sul portafoglio e trovare il coraggio di domandarsi: quali di queste attività mi servono soltanto per “finanziarne altre”, senza che mi procurino alcun beneficio diretto? Quali di queste “coppie” di attività, dunque, potrei definitivamente eliminare dalla mia agenda esistenziale? O, almeno, sostituire con altre a minore impatto?»
Ma soprattutto: perché cambiare? Perché lasciarci alle spalle uno status quo che ci fa arrabbiare ma ci dà sicurezza, che ci frustra ma ci fa sognare di poter avere tante cose, che ci condanna alla schiavitù ma che accettiamo come inesorabile e senza alternative? Cosa possiamo immaginare al di là?
«Per rispondere a questa domanda, non posso che attingere alla mia esperienza personale. E’ vero: prima di cambiare, si è letteralmente lacerati dal terrore dell’incertezza. Cosa potrà mai accadermi, là fuori? Con una efficacissima metafora, Max Weber parlava di “gabbia d’acciaio”: questo sistema ci tiene astutamente sotto chiave, segregati in una prigione apparentemente blindata, le cui sbarre sono essenzialmente fatte di convenzioni, certezze, premure, seduzioni, ammiccamenti.
Quando si è fuori, però, succedono cose che non è per niente facile trasmettere. Per certi aspetti, è come… nascere una seconda volta. Si dice che i neonati, quando vengono al mondo, piangano soprattutto per il dolore causato dall’espansione di un’altra gabbia, quella toracica, e dall’utilizzo per la prima volta dell’apparato respiratorio, che viene infatti “inaugurato” proprio in quel frangente. Ecco: cambiare davvero, abbandonare quello status quo, all’apparenza così confortevole e rassicurante, è esattamente la stessa cosa: subito piangi, ma un attimo dopo ti rendi conto che quella gabbia non si trovava in realtà “fuori”, ma era “dentro” di te. Così, attivi risorse che nemmeno immaginavi di possedere, scopri attitudini e ambizioni nuove. Gli ostacoli e le incertezze vengono affrontate con strumenti diversi.
Un esempio concreto? Come anticipai circa un anno fa in un’intervista rilasciata a questo giornale, ho scelto il percorso che, compatibilmente alle nostre esigenze famigliari, sentivo che potesse fare per me. Questo ha inevitabilmente comportato alcune rinunce, sia in termini di abitudini quotidiane che di… gestione dell’incredulità, diciamo così. Ma oggi mi ritrovo al centro di una dimensione che mi consente di valorizzare a pieno le mie attitudini e di potenziare le mie responsabilità, sia verso me stesso che verso gli altri. Anche attraverso il mio blog Low Living High Thinking, sto mettendo anni di studi e di esperienze altamente qualificanti a disposizione di una diversa prospettiva con cui guardare al futuro. E la bioeconomia è l’anello di congiunzione perfetto: per questo, con gli amici di PAEA e del PER, abbiamo organizzato questo corso.
Cosa c’è allora “al di là”, mi chiedi. Se dovessi sintetizzarlo in una parola, direi che c’è la congruenza. Cioè quell’allineamento del corpo e della mente che, come diceva Carl Rogers, “ci consente di vivere pienamente in accordo con noi stessi, potendo esprimere i nostri bisogni, i nostri desideri, i nostri sentimenti e far sì che tutto ciò che dicono il nostro atteggiamento e le nostre parole sia espressione del nostro pensiero e delle nostre emozioni”.»