Un triste record. Dal 2012 l’Indonesia è sul gradino più alto del podio della deforestazione del nostro pianeta.
Si tratta delle conclusioni di uno studio statunitense, il Primary forest cover loss in Indonesia over 2000-2012, pubblicato alcuni mesi fa dalla rivista Nature Climate Change che ha analizzato l’evoluzione delle foreste attraverso l’aiuto di immagini satellitari. Tra il 2000 e il 2012 circa 6 milioni di ettari di foreste sono state rase al suolo. Con 840.000 ettari di foresta distrutti nel 2012, il doppio di quelli distrutti nello stesso anno nella foresta amazzonica, l’Indonesia detiene un primato poco onorevole non solo per gli indonesiani ma per l’intera umanità, complice di tale distruzione.
Le foreste tropicali, che si estendono per circa 10 milioni di km rappresentativi del 15% delle terre emerse del nostro pianeta, contengono la maggior parte della biodiversità terrestre. Così, se, per un verso, la deforestazione ha conseguenze significative sul cambio climatico e sull’emissione di gas serra, per un altro, minaccia fortemente le specie animali e vegetali che vivono nelle foreste oltre che quegli esseri umani, le popolazioni indigene, che da secoli integrano simbioticamente la natura terrestre.
Più in generale la deforestazione è anche sinonimo di Land Grabbing (accaparramento delle terre altrui) da parte di aziende e gruppi aziendali che fanno del senso degli affari, dello sfruttamento e del denaro l’unica bussola violenta del loro esistere in barba al rispetto per il mondo circostante.
In Indonesia gli alberi sono tagliati principalmente per farne della carta, ma, soprattutto per essere sostituiti da palme da olio. L’Indonesia è infatti il primo produttore mondiale di olio di palma presente in numerosi prodotti che arrivano sulle nostre tavole e che consumiamo quotidianamente (prodotti caseari, prodotti dolciari, prodotti di cosmetica, detersivi, carni, ma anche biocarburanti). Le priorità degli affari, del business unitamente alla soddisfazione delle esigenze dei consumatori a livello mondiale conducono all’oblio e ad una certa disattenzione per le tematiche, divenute oggi problematiche, della biodiversità, dell’ambiente, della salute e, non ultime, quelle del clima e quelle dei diritti umani delle popolazioni indigene.
Il fatto che la deforestazione del territorio indonesiano guadagni ettari a ritmi vertiginosi, battendo ogni record nel 2012, nonostante la moratoria governativa del 2011 sulla concessione di nuove licenze per evitare lo sfruttamento delle foreste, rappresenta un chiaro indicatore non solo della bassa efficacia di tale atto e degli sforzi per ottenerne il rispetto, ma anche della forza e della spietatezza degli interessi economici portati avanti per di più da multinazionali e aziende occidentali.
Cosa possiamo fare di fronte ad una problematica che sembra così gigantesca nelle sue proporzioni e soprattutto così lontana dal nostro giardinetto quotidiano?
Probabilmente bisognerebbe cominciare ad accorciare le distanze e a iniziare a pensare che oggi, noi, consumatori spietatissimi, ben lungi dal condurre uno stile di vita che ruoti intorno al rispetto a 360° e, al contrario, poco sensibili all’esistenza di altri esseri, dicevo, noi consumatori, dovremmo renderci conto del potere che ci viene dato nelle mani, o forse è meglio dire, nelle tasche. Deteniamo il potere di decidere, di dirigere in un senso piuttosto che in un altro le sorti di altra gente, di altri esseri viventi e addirittura del nostro pianeta.
Occorre seriamente convincersi che sono terminate le epoche in cui ci si poteva permettere di delegare i destini dell’umanità ai governanti. Lo abbiamo fatto e i risultati sono sotto i nostri occhi e non solamente in materia ambientale. E’ tempo di un altro tempo in cui bisogna comprendere (dal latino cum con e prehendere prendere) che ogni nostra azione ha una conseguenza sul tutto. Occorre comprendere che l’approccio egoistico non paga alla lunga e, al contrario, è chiaramente deviante rispetto all’obiettivo di benessere personale e collettivo. Occorre comprendere che non si può più prescindere dal nuovo paradigma, quello olistico.
Si deve essere consapevoli che il pianeta è molto piccolo in fondo e che ogni nostro gesto e ogni nostra decisione hanno un impatto immediato (a volte non indifferente) su altro e su altri. Non facciamo più finta di essere indifferenti a tutto ciò. Basta dare un’occhiata a ciò che abbiamo nella busta delle spesa di oggi; con un po’ di pazienza e con poche informazioni più approfondite, ci si renderà conto rapidamente che spesso il nostro scegliere al supermercato, al centro commerciale e nei negozi più i generale, penalizza (per andarci giù dolcemente) chi vive in Africa, chi vive in Asia, in Sudamerica, in Centro America, in Medio Oriente o in qualsiasi altro luogo in cui la sopraffazione, il non rispetto, la violenza, l’affarismo, il business hanno determinato condizioni di miseria, umana e territoriale, di violazione di diritti e di abbrutimento del vivere degli esseri viventi in favore di un consumatore sorridente all’altro capo del mondo e, soprattutto, a beneficio della ricchezza materiale dei pochi orchestratori del pianeta.
Il salto dimensionale dell’uomo moderno, colui che oggi è chiamato categoricamente ca reare un nuovo umanesimo, risiede nell’apertura mentale e nella volontà concreta di rettificare il suo stile di vita (iniziando per esempio da una saggia riduzione dei consumi) per adeguarlo ad una sensibilità differente che, tra l’altro, deve anche formarsi ed essere alimentata attraverso la sua pretesa ad avere un’informazione veritiera, trasparente e corretta.
Trasformiamoci in consumatori più attenti e vigili e non regaliamo il mondo, il nostro paradiso terrestre, a una minoranza di avidi usurpatori.
Già nell’immediato, nell’oggi di oggi, pensate agli alberi dell’Indonesia, a quelli di tutto il resto del mondo, alla biodiversità, agli indigeni, agli esseri viventi, al clima, al consumo di carta e all’utilizzo dell’olio di oliva.