Certo, non è ancora un testo di legge, molti particolari non proprio insignificanti sono avvolti nel mistero e poi ci saranno anche due mesi di consultazione pubblica, ma il piano “la buona scuola” del governo Renzi è pur sempre un testo organico di 136 pagine, che pretende indicare le linee guida per riformare la scuola italiana. E quindi, nessuno può esimersi dall’esprimere sin da subito una valutazione, un’opinione o un giudizio, in particolare per quanto riguarda il modello di scuola pubblica che viene delineato.
Già, perché il cuore strategico della “buona scuola” non è l’aspetto che ha avuto finora più attenzione mediatica e più simpatia pubblica, compresa la nostra, cioè l’annuncio che si porrà finalmente fine all’odiosa piaga del precariato nella scuola, assumendo nel settembre dell’anno prossimo 150mila insegnanti precari e svuotando così le graduatorie ad esaurimento e quella del 2012. Sempre che si trovino i 4 miliardi necessari per finanziare l’operazione, ovviamente, e che il tutto non finisca come la vicenda degli stipendi dei dipendenti pubblici, il cui blocco è stato ancora una volta reiterato, nonostante le tante chiacchiere estive del governo.
No, il cuore è il futuro modello di scuola ed è qui che bisogna iniziare a preoccuparsi o perlomeno a porsi seriamente qualche domanda, visto che il progetto, per nulla originale, si pone in piena continuità con quanto fatto o tentato dai precedenti governi e, persino, con i capisaldi della proposta di legge Aprea del 2008.
Esagero? Non credo e comunque vi invito a investire un po’ del vostro tempo e leggere con attenzione il piano “la buona scuola”. Non fatevi incantare dalle belle parole e dalla grafica accattivante e mettete per un attimo da parte le cose buone che pure ci sono, come il wi-fi e la banda larga o l’insegnamento della musica e della storia dell’arte, e concentratevi sull’essenziale. E così scoprirete concetti e proposte contro i quali siete probabilmente scesi ripetutamente in piazza negli ultimi anni.
Le parole d’ordine sono differenziazione e premialità e questo vale sia per il personale della scuola (docenti, amministrativi, dirigenti), che per gli istituti scolastici. Lo stipendio degli insegnanti, tra i più bassi d’Europa, verrà ristrutturato e reso meno certo nel suo valore. In altre parole, non crescerà più nel tempo in base all’anzianità di servizio, ma sarà sempre più condizionato dalle sue nuove parti variabili e differenziate, in base ai meriti e ai crediti. Anche gli istituti scolastici saranno sottoposti a valutazione e quest’ultima influirà non poco sulla quantità di risorse pubbliche che la singola scuola potrà ottenere.
Ma le scuole non dovranno competere solo per le risorse pubbliche, ma soprattutto cercarsi collaborazioni e finanziamenti sul mercato, cioè tra i privati. E per poter fare questo “la buona scuola” prevede una serie di nuove agevolazioni per i privati, tutte dalla denominazione rigorosamente in english (school bonus, school guarantee, crowdfunding), e soprattutto una modifica sostanziale del modo di essere del singolo istituto scolastico, che dovrà diventare una scuola-azienda, diretta da un preside-manager.
Il passaggio più rilevante a questo riguardo di “la buona scuola” è significativamente anche tra i più scarni dell’intero testo: “Anzitutto per le scuole deve essere facile, facilissimo ricevere risorse. La costituzione in una Fondazione, o in un ente con autonomia patrimoniale, per la gestione di risorse provenienti dall’esterno, deve essere priva di appesantimenti burocratici.” (pag. 124). Ebbene, ora leggetevi anche l’articolo 2 della proposta di legge Aprea e scoprirete un’assonanza davvero impressionante.
Insomma, il modello immaginato da Renzi prevede un sistema scolastico basato sulla differenziazione e sulla competizione. Tutto va conquistato, dal valore dello stipendio alle risorse economiche per l’istituto, passando per lo stesso posto di lavoro. Già, perché sarà la singola scuola, nella sua autonomia, a decidere le assunzioni, attingendo a un apposito registro nazionale docenti, contenente il “portfolio ragionato” di ogni singolo insegnante e amministrativo.
E tutto questo, come ci insegna l’esperienza dei sistemi scolastici che in giro per il mondo hanno spinto questi concetti alle estreme conseguenze, non può che produrre l’accentuazione e la cronicizzazione delle disuguaglianze e delle differenziazioni già esistenti tra i ceti sociali e i territori. Insomma, l’esatto contrario dei principi che avevano ispirato la riforma dell’istruzione pubblica a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, il cui obiettivo era tra l’altro garantire l’accesso alla scuola pubblica e all’università a tutti e tutte, a prescindere dalla provenienza sociale o territoriale. Ora la scuola proposta da Renzi, praticamente identica a quella già immaginata da Berlusconi, Monti e Letta e dalle stesse puntuali letterine europee, ci dice che l’uguaglianza, persino quella delle opportunità, è roba del passato e che nel futuro ci sarà spazio soltanto per una parte e non per tutti e tutte. E pazienza se la lotteria della vita ha deciso di farti nascere in una famiglia con pochi mezzi economici e in un quartiere sfigato.
Infine, vi chiederete cosa dica questo testo sulla scuola privata, cioè quella che ormai si chiama pudicamente “paritaria”. Ebbene, praticamente non ne parla e c’è giusto qualche accenno di qua e di là, come nel caso del sistema nazionale di valutazione, che dovrà valutare tutti gli istituti, sia pubblici che “paritari”. Poca roba, insomma, ma che fa capire che questo governo, in continuità con quelli precedenti, considera la scuola pubblica e quella privata facente parte dello stesso sistema, della stessa offerta formativa. Per il resto, un premier molto attento alla comunicazione, avrà valutato che forse non era il caso di insistere troppo su un tema non molto popolare di questi tempi, come il finanziamento pubblico alla scuola privata. D’altronde dei soldi da dare alle private si parlerà altrove, non certo in un testo destinato al dibattito pubblico.