Tra pochi giorni, il 16 settembre, sarà il mio compleanno, ma sarà anche l’anniversario di uno degli eventi più orribili della storia dei palestinesi: il massacro di Sabra e Shatila, compiuto dal 16 al 18 settembre 1982.
Mentre ero in Libano, ho avuto la possibilità di incontrare molte persone che hanno vissuto e che sono sopravvissute al massacro ed ho scoperto, attraverso le loro storie, che è stato molto più orribile di quanto avrei mai potuto pensare, che le persone sono state uccise a partire dal 14 settembre, portate fuori dai campi dai soldati israeliani e dalle forze del Kataeb (forze di destra libanesi) e sepolte vive in una buca scavata nei pressi dei campi. Il massacro vero e proprio che noi tutti conosciamo è iniziato due giorni dopo con le forze Kataeb che sono entrate nei campi e i soldati israeliani di vedetta a illuminare i campi dall’esterno.
Una delle storie più toccanti che mi sono state raccontate in Libano è proprio su questo. Voglio condividerla perché la persona che me l’ha raccontata è una donna speciale e la sua storia è una testimonianza importante di quanto il popolo palestinese abbia sofferto anche al di fuori della sua terra. Israele è il primo responsabile di tutte le loro tragedie, ed è importante ricordarlo ancora una volta.
Umm Aziz vive nel campo profughi di Burj el-Barajneh a Beirut, in Libano. È una donna minuta che vive da sola in una casa accogliente. Ha le foto dei suoi quattro figli sul muro, persi durante il massacro di Sabra e Shatila nel 1982. Per questo ora la chiamano Umm Shohada (madre dei martiri). Accanto a quelle immagini ha messo una foto di Mohammed Assaf, Arab Idol 2013, perché è una sua fan e l’artista è andato a farle visita una volta. È malata, ma ancora molto lucida e quando sono andata a trovarla, con la mia amica Zeinab e la nostra guida Mohammad, ci ha raccontato la storia della sua vita e tutte le cose orribili che ha vissuto: la Nakba e massacro di Sabra e Shatila. È sopravvissuta alla maggior parte dei suoi figli e ancora spera che alcuni di loro siano vivi.
Voglio condividere la sua storia perché è davvero speciale e la sua dolcezza e la sua forza mi hanno trasmesso tanti sentimenti positivi.
Ecco la sua storia:
«Il mio nome è Umm Aziz, avevo 18 anni durante la Nakba. Sono nata nel distretto di Akka, nel nord della Palestina, ero sposata e avevo due figlie a quel tempo. Nel 1948 Israele ha attaccato il nostro villaggio e l’ha circondato con carri armati. Mio marito è fuggito prima di me e io sono rimasta sola con le mie due bambine. Sono scappata anche io, ma ho lasciato lì alcuni dei miei familiari, ma ho poi avuto la fortuna di andare a trovarli in Palestina due volte dopo la Nakba. Le mie due figlie, 1 mese e 1 anno, morirono entrambe 21 giorni dopo la Nakba, a causa di una grave infezione polmonare.
Anche in Libano ho avuto una vita molto dura. Ho vissuto come rifugiata al campo di Shatila ed ero lì durante il massacro dell’’82, con i miei figli, le mie figlie e mio marito (lui fu poi ucciso dalla milizia sciita Amal durante la guerra dei campi nel 1985). La mattina del 14 settembre del 1982, due giorni prima che le forze del Kataeb entrassero nei campi e commettessero il massacro, stavamo facendo colazione tutti insieme quando improvvisamente qualcuno fece irruzione in casa: erano i soldati israeliani. Hanno preso i miei quattro figli maschi, li hanno fatti mettere in ginocchio e hanno puntato i fucili alle loro teste, poi li hanno portati via senza dar loro il tempo di vestirsi o di finire la colazione. Sono corsa dietro di loro fino all’ingresso del campo di Shatila, nella zona in cui oggi si trova il distributore di benzina Rihab, non volevo lasciarli soli e volevo andare con loro, ovunque Israele li stesse portando. Al di fuori del campo c’erano un sacco di ragazzi in ginocchio, i soldati israeliani hanno preso i miei bambini e li hanno messi insieme agli altri e hanno cominciato a picchiarli con i fucili. Io urlavo e piangevo, ma loro mi spingevano indietro. Poi li hanno presi e caricati tutti su un camion e i soldati israeliani mi hanno detto: “se vuoi venire con noi uccideremo anche te”, poi il camion è partito. Ho iniziato a corrergli dietro piangendo, ero disperata, avevano preso i miei bambini!» Piange e fa piangere anche noi, Mohammed esce di casa a piangere da solo e Zeinab la abbraccia, in attesa che si senta meglio e continui la sua storia. «Non volevo lasciare i miei bambini da soli, ma non sono riuscita a raggiungere il camion. Quella è stata l’ultima volta che ho visto i miei figli.
Dopo un po’ mi è stato detto che tutti quei ragazzi erano stati portati alla città dello sport vicino al campo, dove le forze israeliane e il Kataeb insieme avevano scavato una grande buca e ci avevano spinto tutti dentro. Li hanno sepolti vivi nella buca. Lo sappiamo che perché alcuni di quei giovani sono riusciti a fuggire da quell’inferno e ce l’hanno raccontato. Poi, dopo la fine della guerra, l’ONU ha trovato la buca e i corpi. Ancora non so se i miei figli erano lì o se sono riusciti a fuggire in qualche modo, ma mi piace pensare che sono ancora vivi e stanno vivendo una vita migliore adesso. Qualcuno mi ha detto una volta di aver visto uno dei miei bambini e mi ha chiesto dei soldi per darmi maggiori informazioni e altre persone mi ha detto che erano in una prigione libanese o siriana ma non erano informazioni corrette e nessuno li ha mai trovati fino ad ora. I miei figli avevano 30, 25, 22 e 13 anni a quel tempo e sono tra i 17.000 palestinesi dispersi durante la guerra civile libanese. Questa è la mia vita, ne ho passate tante… ma ho ancora tre figlie, una di loro vive in Svezia e le altre qui nel campo».