Dopo il default, quello vero, quello del 2001 provocato dal fallimento strutturale del modello neoliberale, l’Argentina di Néstor Kirchner e poi di Cristina Fernández, aveva raggiunto accordi col 92.4% dei creditori per la ristrutturazione del debito. Restavano un manipolo dei più avvoltoi dei fondi speculativi, quelli che dagli anni ’80 reaganiani in qua si arricchiscono sulla fame dei popoli spostando capitali da un angolo all’altro del mondo e mandando in rovina l’economia reale con un click.
A quelli, ai fondi speculativi che detengono il 7.6% del debito argentino, la corte suprema di un paese terzo, gli Stati Uniti, aveva dato ragione, obbligando il paese a pagare non le condizioni pattuite col 92.4% restante dei creditori, ma fino all’ultimo dollaro. In buona sostanza quel tribunale ha affermato che, nonostante quel debito fosse palesemente usuraio, contratto da un governo corrotto e violatore dei diritti fondamentali della popolazione, costruito per portare un paese alla rovina e spolparlo fino alle ossa e nonostante 9 creditori su 10 avessero accettato l’idea di aver già speculato abbastanza sull’Argentina, considerando infine equo quanto proposto dal legittimo governo di Buenos Aires, questa dovesse comunque pagare quel debito ingiusto pena un capestro che vorrebbe far ripiombare nel caos un paese di 40 milioni di abitanti.
L’Argentina, pur restando in una situazione complessa sulla quale s’è più volte scritto, in questo decennio ha rialzato la testa in tanti modi, innanzitutto tornando ad essere un paese più giusto, con lo Stato che ha ripreso il suo posto, con una politica dei diritti umani modello per tutto il mondo e tornando ad essere un attore dell’economia internazionale. Lo ha fatto dopo che i 13 anni del cambio uno a uno col dollaro, preteso dall’FMI e accettato supinamente dai governi fondomonetaristi e costato la morte per fame di migliaia di bambini, l’avevano di fatto esclusa dall’economia reale, quella produttiva, nella quale un paese avanzato come l’Argentina produce di suo ed esporta sui mercati.
È in questo contesto che matura questo strano default che è una continuazione della guerra economica per strangolare il paese e seguitare a speculare. Di questa guerra sono complici le istituzioni finanziarie internazionali, le compagnie di rating, i fondi speculativi. L’Argentina in questi anni ha compiuto alla lettera i propri impegni di pagamento. Ancora lunedì, tre giorni fa, ha versato al Club di Parigi ben 650 milioni di dollari. Ora quello che c’è in ballo con questa sentenza non è tanto sedare gli appetiti degli avvoltoi ma rimettere in discussione oltre 500 miliardi di dollari che i vecchi creditori potrebbero pretendere con ricorsi a cascata una volta riaperta la porta. L’obbiettivo è sempre quello: porre fine all’anomalia latinoamericana, di governi che nell’ultimo decennio si sono allontanati dall’ortodossia monetarista e riprendere possesso da padroni di quello che dalle dittature genocide alla notte neoliberale hanno considerato loro.
L’Argentina però non solo ha agito in queste settimane con serietà e coerenza per ottenere condizioni giuste e legali e depositando al Banco Mellon di New York la somma dovuta come garanzia. L’Argentina, che era completamente isolata nel 2001, oggi non è sola. Ha la solidarietà di tutta l’America latina integrazionista, dal Brasile al Venezuela, ma anche di paesi come il Messico e la Francia, oltre che di grandi paesi come la Cina e istituzioni come il G77 e perfino della Unctad. Il mondo è cambiato non solo in peggio in questi tredici anni; gli avvoltoi che volano sul cielo di Buenos Aires vogliono riportarlo agli anni ’90.