Federico Rampini è un giornalista economico molto produttivo e ultimamente ha pubblicato un saggio denso e illuminante: “La trappola dell’austerity” (Laterza, 2014, anche in ebook, 139 p., euro 5,90).
Rampini descrive i buchi neri dell’ideologia liberista e cita lo straordinario caso di Thomas Herndon, lo studente di una piccola università americana che ha scoperto due gravi errori nel famoso studio di due grandi economisti di Harvard: Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff. Secondo il famigerato studio “se il debito pubblico di una nazione raggiunge la soglia del 90 per cento del Pil, diventa un ostacolo insuperabile alla crescita” (p. 41). Herndon ha replicato i calcoli sui dati forniti dai due economisti e ha trovato un banale errore di allineamento nel software Excel e uno strano sbaglio di omissione: non avevano incluso il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda.
Indubbiamente lo studio è stato invalidato, ma il senso comune ci dice che se devi pagare troppi interessi sul debito pubblico è chiaro che questi soldi devono essere stampati o devono arrivare dalle tasse. In ogni caso esiste per ogni Stato un limite oltre il quale alzando le tasse si blocca la crescita economica (il caso dell’Italia). Questa cosa risulta una certezza per i paesi europei che non possono stampare moneta poiché fanno parte del circuito dell’Euro. Bisogna poi considerare che i paesi anglosassoni di solito non vengono assaliti dagli squali finanziari che si nutrono a Wall Street.
Per un paese come il Giappone, che può stampare la sua moneta, le cose sono un po’ diverse, ma con un debito pubblico superiore al 200 per cento è chiaro che senza una qualche forma di abbattimento del debito l’economia continuerà a registrare una calma piatta o poco più. Uno Stato non è un’azienda e può indebitarsi quanto vuole. Ma non può indebitarsi troppo e per troppo tempo, altrimenti può ubriacare l’economia. Comunque, siccome i buoni del tesoro giapponesi sono da molti mesi a “tasso zero”, molti capitali orientali si sono trasferiti in Europa e “l’audace esperimento nipponico, che punta a rilanciare la crescita a Tokyo, contribuisce alla riduzione dello spread italiano” (p. 21), poiché facilita la vendita dei titoli di Stato italiani.
Inoltre c’è da studiare il caso islandese: deprezzando la moneta si possono avere dei buoni effetti a breve termine, ma a medio e lungo termine l’inflazione riduce gli stipendi e appesantisce le rate dei mutui indicizzati all’inflazione (l’Islanda ha svalutato la krona del 50 per cento sull’euro).
Rampini cita anche la “Modern Monetary Theory” (MMT), che spinge sul potere illimitato delle banche centrali di finanziare le spese pubbliche, quindi senza aumentare le tasse, soprattutto negli anni in cui manca la crescita economica. Infatti i grandi investimenti pubblici ottengono anche il risultato di aumentare gli investimenti privati, poiché gli imprenditori diventano più fiduciosi. Uno degli esponenti di questa teoria è James K. Galbraith, figlio di John Kenneth Galbraith, il principale consulente economico di Kennedy. Comunque speriamo che la MMT non si trasformi nella solita ideologia da applicare a tutti e a tutti i costi. L’austerità ci ha già fatto consumare tutta la pazienza.