Se la caduta di Mosul, città nel nord dell’Iraq, si configura attualmente come un colpo amaro per il governo del primo ministro iracheno Nouri Al-Maliki, domani tutto lo Stato assaporerà quest’amarezza. La caduta di Mosul è un pronostico negativo della definitiva caduta dell’Iraq e dell’intera regione nel vortice di una guerra religiosa. Coloro che combattono per lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL) stanno, infatti, appoggiando una linea di pensiero caratterizzata da visioni religiose limitate che di conseguenza li porta ad eliminare persino i capi di altre forze di opposizione che non la pensano come loro. La caduta di Mosul non rappresenta un colpo solo per Maliki, in quanto una reazione tempestiva presentata da Usama al-Nujayfi (portavoce del Consiglio dei Rappresentanti dell’Iraq) prova chiaramente che questo inquietante sviluppo non è altro che un drastico colpo per i Sunniti della regione.
Di Sadeq Maleki, analista ed esperto del Medio Oriente.
La guerra e il conflitto armato è il destino finale di un Iraq che è già stato disintegrato nella mente dei suoi cittadini. Finché gli iracheni crederanno nella divisione tra Sciiti, Sunniti e Curdi, il problema di questo stato arabo non si potrà di certo risolvere e l’ISIL avrà abbastanza spazio di manovra.
Sebbene la caduta del precedente dittatore Saddam Hussein era stata accolta con gioia da tutti gli iracheni, oggigiorno, il rifiuto ad accettare le nuove equazioni di potere da parte dei nuovi governanti della nazione e le loro alleanze regionali ha determinato un destino differente per la nazione e, allo stesso tempo, ha privato l’Iraq della tranquillità e della stabilità di cui avrebbe dovuto godere.
In pratica, gli Sciiti iracheni, che avevano combattuto contro il regime precedente prima di acquisire esperienza politica nella guida del governo, non sono riusciti a comportarsi come giusti vincitori di una democrazia basata sul voto, nonostante gravasse sulle loro spalle una pesante responsabilità dopo la caduta di Saddam.
Maliki ha dimostrato la sua forza e la sua terza consecutiva vittoria alle elezioni nazionali testimonia che ha più probabilità, rispetto ad altri aspiranti, di divenire il prossimo primo ministro. Comunque, sembra che non sia stato all’altezza della guida dell’Iraq. Condizioni sociali complicate provenienti dai diversi substrati etnici e religiosi esistenti in Iraq hanno reso difficile la gestione del governo, se non impossibile. Ovviamente, non si tratta di un problema specifico di Maliki, chiunque altro al suo posto avrebbe dovuto affrontarlo. L’Iraq, emancipato dalla dittatura di Saddam, adesso è nelle mani dei piccoli e grandi dittatori che si preoccupano più degli interessi del proprio gruppo che degli interessi nazionali del Paese.
Gli Sciiti hanno conquistato il controllo del governo iracheno, ma non sono riusciti ad essere buoni governanti. Oltre i problemi causati dai rivali Sunniti e Curdi, anche gli Sciiti devono ritenersi responsabili della situazione attuale. Nonostante gli Sciiti iracheni costituiscano più del 60% della popolazione nazionale, non sono ancora riusciti ad approfittare al meglio di questo loro vantaggio nell’arena politica. È vero che gli Sciiti mancano dell’esperienza politica dei Curdi e dei Sunniti, ma il lasso di più di un decennio dalla caduta di Saddam sarebbe potuto essere una buona opportunità per far loro acquisire esperienza.
La presenza di divisioni e le profonde differenze tra i vari gruppi Sciiti è stato il fattore principale che ha spianato la strada alla caduta di Mosul e preparato il terreno all’ISIL per la conquista della città. Sono ammissibili differenze tattiche tra i gruppi Sciiti, ma quando queste differenze si inseriscono in aree strategiche, non possono più esserlo in quanto non solo danneggiano la posizione degli Sciiti in Iraq, ma causano inoltre numerosi colpi all’integrità del Paese.
Una mancanza di unità tra i ceti degli Sciiti iracheni è uno dei fattori più rilevanti che, in particolare, ha danneggiato la posizione degli Sciiti nella nazione ed ha, in generale, deteriorato la situazione in Iraq. Divisioni etniche e religiose all’interno del Paese sono una realtà, ma tale realtà potrebbe essere usata come un’opportunità piuttosto che permettergli di trasformarsi in una minaccia per lo stato arabo. Solo pochi paesi arabi possono godere di tale opportunità. La responsabilità di cui gli Sciiti iracheni si fanno carico per favorire l’unità e convertire le minacce in opportunità è più pesante rispetto a quella di altri gruppi e correnti politiche.
La reazione di Al-Nujayfi e la preoccupazione nei confronti degli sviluppi nella città di Mosul è un motivo di ottimismo che potrebbe aiutare gli Sciiti e i Sunniti ad unirsi ed intraprendere un’azione comune verso il giusto sentiero, considerando l’Iraq libero dalle questioni religiose. Un tale sviluppo può, in prima istanza, velocizzare il processo per la formazione di un nuovo governo iracheno con Maliki o con chiunque altro come primo ministro.
In secondo luogo, un terreno adeguato potrebbe aiutare a superare i problemi esistenti e riportare stabilità e tranquillità all’interno della nazione attraverso una corretta comprensione delle minacce attualmente affrontate dall’Iraq. Tutti i gruppi politici iracheni e le autorità, in particolar modo Al-Nujayfi, Massoud Barzani (Presidente della regione del Kurdistan iracheno), Ammar Al-Hakim (leader del Supremo Consiglio Islamico dell’Iraq) e Muqtada al-Sadr (influente chierico sciita) si assumono un’enorme responsabilità nell’aiutare il Paese a risolvere la crisi in corso per riportare stabilità e sicurezza.
Nel frattempo, i Curdi avevano offerto a Maliki di entrare a Mosul e riprenderla dalle mani dei terroristi dell’ISIL. Ipotizzando che una tale proposta non abbia specifici motivi politici ed abbia il solo scopo di promuovere l’unità nazionale in Iraq, potrebbe essere un buon punto di partenza per il Paese. Lo scorso anno, Arbil (capitale della regione del Kurdistan iracheno) ha sfidato il governo centrale di Baghdad esportando indipendentemente e vendendo petrolio. Vi è, inoltre, la possibilità che questa offerta sia parte di un piano, che i Curdi iracheni continueranno in seguito e che stiano attualmente provando a consolidare il loro controllo sull’importante città di Mosul.
Il punto principale è che la caduta di Mosul, ad opera di 3.500 terroristi dell’ISIL, quando più di 100.000 tra soldati e forze di polizia irachena erano in posizione, può significare solo una cosa: componenti all’interno della città hanno cooperato con l’ISIL e il gruppo terroristico ha avuto qui una base di appoggio sociale. Pertanto, Maliki avrebbe dovuto agire prima che lo facesse l’ISIL in modo da migliorare i rapporti del suo governo con i diversi gruppi sociali in città ed apportare modifiche alle forze militari lì posizionate. Il ritardo e la perdita di tempo per depurare l’esercito iracheno dalle influenze del partito di Ba’th non ha alcuna giustificazione logica e così facendo, il governo iracheno sarebbe andato incontro a maggiori perdite, come ad esempio la caduta di Mosul ed avrebbe affrontato altre minacce. Allo stesso tempo, il ruolo vitale assunto dai Paesi che appoggiano l’ISIL non può essere ignorato. Alcuni di questi, abbastanza illusi per credere che una Mezzaluna sciita si sta concretizzando nella regione, stanno provando a formare un’opposizione nel Levante e nell’Iraq.
Da ultimo, ma non per questo meno importante, la coincidenza tra la caduta di Mosul e il diffondersi dell’insicurezza in Iraq con la recente visita del Presidente iraniano Hassan Rouhani in Turchia e la conclusione di importantissimi accordi di cooperazione tra Teheran e Ankara è un punto degno di nota che non può esser preso con leggerezza.
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Traduzione dall’inglese di Francesca Vanessa Ranieri