Pubblichiamo volentieri l’intervento di Maude Barlow, presidente di Council of Canadians e Food & Water Watch nella sessione “A caccia di risorse. Gli effetti dell’accaparramento e il ruolo dell’Europa” nell’ambito del Convegno Internazionale “Un futuro giusto o giusto un futuro? Ambiente, consumo e sviluppo: istruzioni per l’uso”. L’evento è stato organizzato da Mani Tese il 9 e 10 maggio 2014 a Milano, in occasione del suo cinquantesimo anniversario.
In un mondo che sta esaurendo l’accesso all’acqua, la questione del controllo incombe. L’acqua è un diritto umano, un bene pubblico e un patrimonio comune o un prodotto da mettere sul mercato come il petrolio e il gas?
L’accaparramento dell’acqua
La paura della scarsità di cibo per il futuro ha portato paesi ricchi, investitori internazionali e operatori di commodities ad accaparrarsi grandi quantità di terra nel sud del mondo per sfamare le loro popolazioni o come investimenti speculativi. Un’area pari a quasi tre volte la dimensione del Regno Unito è stata “accaparrata” a prezzi stracciati. Gli investitori stanno facendo affari incredibili: alcuni affittano enormi pezzi di terreno per 99 anni pagando non più di 40 centesimi all’acro all’anno.
Oltre un quinto dell’area della Cambogia è stato concesso a interessi privati, spostando quasi mezzo milione di persone. L’Etiopia è uno dei paesi con il più alto livello di fame al mondo, eppure il suo governo sta offrendo enormi distese dei suoi terreni più fertili a speculatori per coltivare cibo da esportare.
Chi si accaparra terreni si appropria anche dell’acqua, poiché gli investitori hanno bisogno di garantirsi l’accesso all’acqua per quelle che sono essenzialmente colture da esportazione, devastando i bacini idrici locali. Non solo questi grandi agro-investitori scelgono il terreno migliore per le loro colture, ma bloccano anche il diritto di accesso a ruscelli, fiumi e falde idriche locali. Un numero allarmante di paesi sta cedendo i propri diritti all’acqua per i decenni a venire, la maggior parte a prezzi stracciati.
La quantità d’acqua necessaria in Africa per coltivare un terreno acquisito nel 2009 è da sola due volte il volume d’acqua usato per l’agricoltura in tutta l’Africa appena quattro anni prima. Se l’accaparramento delle terre continua al ritmo attuale, in cinque anni la richiesta di acqua fresca supererà le scorte di acqua rinnovabile in Africa. Alcuni lo definiscono “suicidio idrologico”.
L’acqua è anche la causa di altri spostamenti forzati. Alta tecnologia ad alta intensità di capitale e “zone economiche libere” su larga scala costringono ogni anno 15 milioni di persone a spostarsi. Inoltre terreni agricoli, zone di pesca, foreste e villaggi vengono convertiti in serbatoi, sistemi di irrigazione, miniere, piantagioni, autostrade, insediamenti urbani, complessi industriali e resort turistici. In questo modo e con l’autorizzazione dei governi, gli interessi privati assumono il controllo dell’acqua che un tempo sosteneva intere popolazioni.
L’acqua viene “accaparrata” e mercificata anche in altri modi. L’interesse delle aziende per le fonti mondiali di acqua pulita, ormai in via di esaurimento, è andato crescendo per tre decenni, ma è aumentato in modo vertiginoso negli ultimi anni. Le multinazionali considerano l’acqua un prodotto vendibile e negoziabile, non un patrimonio comune o un bene pubblico e sono decise a creare un cartello somigliante a quello che oggi controlla ogni aspetto dell’energia, dalla ricerca, alla produzione fino alla distribuzione.
Molti paesi poveri sono stati costretti a stipulare contratti sui servizi idrici con utenze private a scopo di lucro, una pratica che ha generato un’accanita resistenza da parte dei milioni di persone escluse a causa della povertà. Ora sotto la maschera dell’austerity anche l’Unione Europea sta promuovendo servizi per l’acqua privata e di scarico.
Altre lotte sono dirette contro le compagnie dell’acqua in bottiglia, che prosciugano grandi quantità di acqua dai bacini idrici locali per venderla. Alcuni paesi, come il Cile, vendono all’asta l’acqua non purificata di laghi e fiumi a interessi globali come le società minerarie, che oggi posseggono letteralmente l’acqua che prima apparteneva a tutti. Le aziende private controllano enormi quantità di acqua usata nell’agricoltura industriale, nell’industria mineraria e nella produzione di energia e possiedono la maggior parte delle dighe, dei canali, degli impianti di dissalazione e delle infrastrutture urbane del mondo.
Molti paesi, tra cui l’Australia, il Cile, gli Stati Uniti e la Spagna, hanno introdotto i mercati idrici e il commercio d’acqua; una licenza diventa così una proprietà privata e investitori privati e imprese del settore agro- industriale accumulano, comprano, vendono e commerciano acqua non purificata nel mercato, destinandolo a chi può permettersi di comprarla. In ognuno di questi casi, l’acqua diventa proprietà privata di chi ha i mezzi per comprarla e viene negata a chi non li ha.
Neanche i governi possono competere con il mercato. Quando il commercio dell’acqua è stato introdotto in Australia, gli investitori privati e i broker hanno portato il suo prezzo alle stelle. Quando il governo australiano ha provato a ricomprare l’acqua che aveva dato via gratis per salvare dal prosciugamento il fiume Murray-Darling non ha più potuto permetterselo.
Impatti sulle comunità locali e sull’ambiente
L’impatto di questo saccheggio d’acqua sulle comunità locali e sul loro ambiente è stato devastante. Piccoli agricoltori e popolazioni indigene sono stati scacciati a milioni per far spazio all’accaparramento delle terre, ora usate per coltivazioni destinate all’esportazione; le comunità locali si ritrovano così sempre più affamate e prive d’acqua.
Inoltre l’agricoltura locale, sostenibile e basata sulla biodiversità, viene ormai sostituita dai peggiori esempi di imprese agro-industriali, complete di inquinamento idrico per l’uso di prodotti chimici, sovra-estrazione di acqua sotterranea e irrigazione superficiale. Coloro che vengono scacciati dalle terre sono proprio quelli che sanno praticare l’aridocoltura e la rotazione delle colture per proteggere le fonti d’acqua e convivere con le oscillazioni di siccità e inondazioni che caratterizzano la maggior parte del mondo.
Questi contadini si uniscono ad altri sfollati climatici e comunità costrette ad abbandonare la loro terra per fare spazio a zone di libero scambio, mega-dighe, mega-progetti e siti industriali ed emigrano nelle baraccopoli che circondano le città dei paesi in via di sviluppo. Là molti di loro non hanno accesso all’acqua pulita o ai servizi igienici, perché questi slum non sono formalmente riconosciuti, o perché il prezzo dell’acqua, spesso privatizzata, è fuori dalla loro portata.
Conoscete le tremende statistiche: le malattie dovute all’acqua uccidono più bambini di tutte le forme di violenza messe insieme, inclusa la guerra. L’ONU ci assicura che sta chiudendo il divario dell’accesso all’acqua, ma io ho i miei dubbi. Per valutare gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio riguardo all’acqua, calcola il numero di nuove condutture installate in un paese, ma non è detto che da una tubatura esca acqua pulita. Una conduttura potrebbe anche essere molto lontana o misurata, mettendola fuori dalla portata dei poveri.
Personalmente credo che la diminuzione dei rifornimenti mondiali d’acqua a causa dell’inquinamento, della cattiva amministrazione e dello spostamento dell’acqua dai bacini idrici stia portando a una crisi di enormi proporzioni. Secondo UN Habitat entro il 2030 più della metà della popolazione dei grandi centri urbani abiterà in baraccopoli senza accesso all’acqua o ai servizi igienici.
Non bisogna credere che questi abusi siano relegati al sud del mondo; è importante sapere che si profilano anche per il nord. Oltre 90.000 poveri di Detroit (Michigan) si sono visti tagliare l’acqua perché non potevano pagarla e molte altre migliaia subiranno presto la stessa sorte. In Bulgaria, Grecia, Spagna e Portogallo altre migliaia di persone hanno perso l’accesso all’acqua e sono state sfrattate.
Chi sta guidando l’accaparramento dell’acqua?
Nessuna di queste violazioni dei diritti umani e ambientali doveva accadere. Una buona politica pubblica e una vera cooperazione internazionale poteva evitare tutto questo. Ma negli ultimi decenni la maggior parte dei governi e delle istituzioni internazionali ha adottato un modello economico che favorisce la crescita illimitata del mercato, riducendo in modo drammatico i poteri del governo, la de-regulation delle finanze e delle risorse, il cosiddetto “libero” scambio al di là dei confini e il crescente potere delle imprese.
Sostenuta dall’Unione Europea e dalle banche europee, la Banca Mondiale continua a promuovere la privatizzazione dei servizi idrici nel sud del mondo, nonostante molti di questi accordi siano stati un completo fallimento. Inoltre il finanziamento di questi servizi va ormai direttamente a imprese come Suez e Veolia, aggirando i governi e adesso la Banca Mondiale sta investendo nelle compagnie stesse.
La Società finanziaria internazionale, un’agenzia della Banca Mondiale, inoltre finanzia in modo cospicuo il settore agro-alimentare nel sud del mondo e asserisce che l’alto costo del cibo offre ai paesi poveri opportunità uniche per giovarsi dello stesso accaparramento delle terre che li sta distruggendo. La Banca Mondiale lavora addirittura con i governi dei paesi poveri per cambiare la legislazione in modo da aumentare la quantità di terra che uno straniero può possedere e ha persino una “classifica del business” che favorisce i governi che rendono la vita più facile agli investitori decisi ad accaparrarsi le terre.
Un’altra tendenza inquietante è la privatizzazione degli aiuti esteri. Un ammontare crescente di aiuti pubblici viene trasferito non ai governi, ma al settore privato, dando alle aziende maggiore potere per determinare le politiche locali. Un rapporto dell’European Network of Debt and Development ha scoperto che nell’ultimo decennio la maggior parte degli aiuti della Banca Mondiale e della Banca europea degli investimenti sono finiti in paradisi fiscali e aziende con sede nel nord del mondo, soprattutto banche commerciali, fondi speculativi e fondi di private equity.
Alcuni governi – come quello del mio paese, il Canada – finanziano solo agenzie umanitarie disposte a collaborare con gli obiettivi delle imprese che fanno affari con il paese designato. In America Latina gli attivisti dell’acqua che si oppongono alla distruzione delle risorse idriche locali per mano delle compagnie minerarie canadesi non possono più chiedere aiuto alle agenzie umanitarie del paese.
Come gli aiuti sono privatizzati, così i gruppi umanitari locali sono politicizzati. Gli attivisti africani per la giustizia dell’acqua segnalano che solo i gruppi a favore della privatizzazione e delle appropriazioni dei terreni sono finanziati per il loro lavoro.
La nuova generazione di accordi commerciali e sugli investimenti è un altro enorme ostacolo al diritto umano all’acqua. Questi accordi non hanno niente a che fare con la riduzione delle tariffe e l’apertura dei commerci e riguardano invece la totale limitazione del potere dei governi di proteggere i diritti della popolazione, le loro risorse e il loro ambiente.
Questa nuova generazione di accordi commerciali, come il Comprehensive Economic and Trade Agreement (Accordo economico e commerciale globale – CETA) tra Canada e Unione Europea e il Transatlantic and Investment Partnership (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti – TTIP) tra Unione Europea e USA, stabiliscono clausole investitore-stato che danno alle aziende straniere il diritto di citare in giudizio i governi se ritengono che il loro “diritto al profitto” sia colpito da leggi e regolamentazioni interne.
In Canada abbiamo convissuto con questo orribile potere corporativo per vent’anni e questo ha avuto un impatto assolutamente negativo sulla capacità di proteggere in modo reale la nostra acqua dalle società americane. Con il CETA, sarà più difficile mantenere l’acqua pubblica. Suez e Veolia non vedono l’ora.
Esistono oggi quasi 3.000 accordi bilaterali nel mondo, molti dei quali prevedono il diritto delle aziende a far causa direttamente ai governi per un risarcimento se i loro profitti sono influenzati da leggi e pratiche nazionali. Immaginate l’impatto di questi accordi sui paesi poveri che cercano di proteggere i loro rifornimenti d’acqua dal saccheggio straniero.
È importante sottolineare che i trattati investitori-stato danno diritto agli accaparratori stranieri di terre e acqua non solo al raccolto che stanno coltivando, ma anche alla terra e all’acqua usate per produrlo.
Qui non si tratta solo di speculazione. Nel 2010 il governo canadese ha pagato 130 milioni di dollari a una compagnia americana di cellulosa e carta che aveva abbandonato il suo stabilimento di Terranova, lasciando i dipendenti senza lavoro e pensione. La compagnia ha fatto causa al governo grazie alla disposizione investitore-stato del North American Free Trade Agreement, sostenendo che l’acqua che aveva usato per decenni le apparteneva. E’stato così stabilito un pericoloso precedente, che si potrebbe ripetere altrove.
Con queste regole, se un paese che oggi permette l’accaparramento di terre e acqua decidesse di riprendere il controllo di queste risorse, dovrà prepararsi all’eventualità di pagare enormi risarcimenti per il basilare diritto di auto-governarsi.
Il rapporto investitore-stato ha suscitato di recente una grande preoccupazione in Europa, ma purtroppo, nonostante sia in corso una consultazione pubblica al riguardo, il Parlamento Europeo ha concordato un inquadramento per la gestione delle conseguenze finanziarie di questo regalo alle imprese, invece di respingerlo in modo definitivo.
Cosa possiamo fare per impedire l’accaparramento dell’acqua e realizzare il diritto all’acqua?
La globalizzazione economica, con la sua enfasi sulla crescita ad ogni costo, il suo servilismo verso l’1%, la sua sistematica riduzione dei beni comuni, il suo rafforzamento dei diritti aziendali nella legislazione internazionale e la cacciata dei custodi locali di terra e acqua costituisce una ricetta infallibile per arrivare a una crisi idrica.
Se si vuole avere qualche speranza di successo, la soluzione alla crisi idrica globale deve includere una rinuncia a questo modello di crescita. I paradisi fiscali vanno chiusi e lo stato di diritto deve prevalere sul capitale transnazionale.
Il commercio deve essere riformato radicalmente per servire un diverso insieme di obiettivi e giungere a un controllo democratico. Le aziende devono perdere il diritto di fare causa ai governi. Gli accordi investitore-stato vanno vietati dovunque, come è successo in Australia, Brasile e Bolivia. Inoltre ogni riferimento all’acqua come bene negoziabile, servizio o investimento va rimosso dagli accordi commerciali. Gli interessi delle aziende e del mercato non devono essere in alcun modo usati per ostacolare la protezione locale e internazionale dell’acqua.
L’accaparramento delle terre e dell’acqua deve finire. Abbiamo bisogno di una moratoria internazionale sulle acquisizioni su larga scala e le terre razziate devono essere restituite. La vera sicurezza alimentare in Africa e in ogni altro luogo verrà da una genuina riforma agraria e idrica e dall’orientamento degli investimenti pubblici verso l’agricoltura di comunità o familiare.
Una nuova etica dell’acqua
Entro il 2030 la nostra domanda globale di acqua supererà le risorse del 40%, una ricetta infallibile per produrre una grande sofferenza. Cinquecento scienziati hanno di recente informato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon che l’abuso collettivo di acqua ha fatto sì che il pianeta entrasse in “una nuova era geologica” . La maggior parte della popolazione del pianeta vive in un raggio di 50 chilometri da una fonte di acqua di scarsa qualità.
Se il pianeta e noi stessi vogliamo sopravvivere, abbiamo bisogno di una nuova etica, che ponga l’acqua e la sua tutela al centro di tutte le politiche e pratiche.
Questa nuova etica dell’acqua dovrebbe basarsi su quattro principi.
Il primo è che l’acqua è un diritto umano e deve essere divisa equamente. Nel 2010 l’Assemblea Generale dell’ONU ha formalmente riconosciuto il diritto umano all’acqua e ai servizi igienici. Poco dopo il Consiglio per i Diritti Umani ne ha precisato il significato. Mentre la risoluzione taceva sulla questione della proprietà dell’acqua, il Consiglio ha chiarito che questo nuovo diritto è vincolante per i governi e stabilisce i loro obblighi e responsabilità nel metterlo in pratica.
Non solo adesso tutti i governi hanno la responsabilità di impostare un piano per distribuire acqua sicura, conveniente e pulita ai propri cittadini, ma devono anche impedire a terzi di interferire con questo nuovo diritto. Aziende come le imprese agro-alimentari che si appropriano di terreni e acqua e inquinano o prosciugano fonti idriche locali possono essere accusate di violare il diritto umano all’acqua. Questo fornisce un importante strumento alle comunità locali di tutto il mondo nelle lotte contro le miniere, le dighe e l’estrazione dell’energia.
Il secondo principio sostiene che l’acqua è un patrimonio comune dell’umanità e delle generazioni future e va protetta come un bene pubblico dalla legge e nella pratica. L’acqua non deve mai essere comprata, venduta, tesaurizzata o scambiata come merce sul libero mercato e i governi devono mantenerla come bene comune, non per il profitto privato. Le imprese possono aiutare a trovare soluzioni alla crisi idrica, ma non dovrebbero avere la possibilità di decidere l’accesso a questo essenziale servizio di base, poiché la loro ricerca di profitto prevarrà sempre sul bene pubblico.
Secondo il terzo principio, l’acqua ha dei diritti anche al di fuori della sua utilità per gli esseri umani. Appartiene alla Terra e alle altre specie. La nostra credenza nella “crescita illimitata” e il nostro modo di trattarla come uno strumento per lo sviluppo industriale ha messo in pericolo i bacini idrografici della Terra. L’acqua non è una risorsa per la nostra convenienza e il nostro profitto, ma costituisce l’elemento essenziale di un ecosistema vivente. Dobbiamo adattare le nostre leggi e pratiche per assicurare la protezione dell’acqua e il ripristino dei bacini idrici – un antidoto cruciale al riscaldamento globale.
Infine credo fortemente che l’acqua ci possa insegnare come vivere insieme, se solo glielo permettiamo. Possono scoppiare guerre per l’acqua in un mondo con una domanda crescente e forniture sempre più scarse, ma così come può essere fonte di dispute, conflitti e violenze, l’acqua può anche unire persone, comunità e nazioni in una ricerca comune di soluzioni.
La tutela dell’acqua richiederà vie più collaborative e sostenibili per l’agricoltura, per la produzione d’energia e per i commerci internazionali e avrà anche bisogno di un potente controllo democratico. La mia più profonda speranza è che l’acqua possa diventare un dono della natura all’umanità e insegnarci come vivere più leggermente sulla terra, in pace e nel reciproco rispetto.
Come ha detto Eleanor Roosevelt: “Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei loro sogni”.
Bene, io credo nella bellezza di questo sogno: credo che la crisi idrica globale diventerà la spinta per la pace nel mondo, che tutta l’umanità capirà che l’acqua è la fonte della vita e si inchinerà alla necessità di proteggere e di ripristinare i bacini idrici e che grazie al nostro lavoro comune i popoli del mondo dichiareranno che le sacre acque della vita sono un diritto umano e una proprietà comune della Terra e di tutte le specie, da preservare per le generazioni a venire.
Maude Barlow è presidente nazionale di Council of Canadians e di Food and Water Watch. Il suo nuovo libro è Blue Future, Protecting Water for People and the Planet Forever.
Traduzione dall’inglese di Cecilia Benedetti. Revisione di Anna Polo