In questo articolo Roberto Savio, fondatore e presidente emerito dell’Inter Press Service (IPS) parla della persistente disuguaglianza e del fallimento della teoria economica della “distribuzione capillare”.
Non passa giorno senza che arrivino notizie sulla crescente disuguaglianza tipica del modello economico neoliberista promosso dal Washington Consensus (insieme di dieci direttive di politica economia per i paesi in via di sviluppo in crisi, promosse da organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, N.d.T.) L’idea che la crescita economica sia “un’alta marea che solleva tutte le navi”, come affermò la Thatcher dichiarando guerra al Welfare State, o che “il capitale distribuirà il benessere a tutti”, ha oggi perso ogni credibilità. I fatti, come si dice, sono testardi. Lo scorso anno, 23 banchieri hanno ricevuto diritti pensionistici pari a 22,7 milioni di euro e aumenti di stipendio del 27%, nonostante uno scenario di deflazione.
E i fatti sono stati dimostrati in un’esauriente analisi statistica dell’economista francese Tomas Piketty (autore di “Il capitale nel XXI secolo”): sulla base dei dati degli ultimi due secoli, emerge con chiarezza come il capitale ottenga una ricompensa maggiore del lavoro. In ogni paese la crescita economica è distribuita in modo diseguale tra i salari generali e ciò che va ai ricchi.
Nel corso del tempo, il capitale dei ricchi aumenterà più di qualunque altra cosa e alla fine i più ricchi vedranno il loro patrimonio crescere in modo continuo, molto più del benessere generale. Coloro che ereditano il capitale finiranno per godersi la parte più grande della crescita: in parole povere, sottrarranno alla popolazione il suo aumento di ricchezza. E questo significa che stiamo tornando ai tempi della Regina Vittoria.
Ciò è dovuto a una nuova realtà: il capitalismo finanziario sta andando molto meglio del capitalismo produttivo. L’ultimo numero della rivista statunitense Alpha elenca i 25 manager di fondi speculativi più pagati. L’anno scorso questi manager – tutti uomini – hanno guadagnato la strabiliante somma di 21 miliardi di dollari, superiore al reddito nazionale di paesi africani come Burundi, Repubblica Centrafricana, Eritrea, Gambia, Guinea, Sao Tomé, Seychelles, Sierra Leone, Niger e Zimbabwe messi insieme. Per rimanere negli Stati Uniti, il Premio Nobel Paul Krugman scrive che lo 0,1% con il reddito più alto è tornato all’Ottocento.
Secondo il Bloomberg Billionaires Index, che classifica ogni giorno le trecento persone più ricche del mondo, lo scorso anno costoro hanno accresciuto il loro patrimonio di 524 miliardi di dollari– più delle entrate di Danimarca, Finlandia, Grecia e Portogallo messe insieme.
Basta andare su Wikipedia e cliccare su “National Budget around the world”: vedrete quanti paesi poveri potrete sommare, con i loro milioni di abitanti, per arrivare a 524 miliardi di dollari.
Lo stesso vale per l’Europa. Abbiamo statistiche simili dalla Spagna. Questa è una tendenza che si sta sviluppando ovunque in Europa, persino nei paesi nordici, ma anche in Brasile, Cina, Sud Africa e in ogni altra parte del mondo. Questo è diventato così un andamento normale nella “new economy”, dove il lavoro costituisce solo un fattore variabile di produzione e la disoccupazione a lungo termine è considerata inevitabile e strutturale.
Intanto le Nazioni Unite affermano che l’estrema povertà mondiale è stata dimezzata. Il numero di persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno è sceso dal 47% nel 1990 al 22% nel 2010. Ci sono ancora 1,2 miliardi di persone che vivono nella povertà estrema, ma sta emergendo in tutto il mondo una nuova classe media, anche se tale avanzamento è dovuto soprattutto a Brasile, Cina e India.
L’argomentazione dei difensori dell’attuale modello economico è quindi: “Se ci sono pochi super-ricchi, perché ignorare l’enorme progresso che ha creato 1 miliardo di cittadini della nuova classe media?”
Questo discorso ha però tre pecche evidenti. La prima è che questo tipo di crescita economica sta già riducendo la classe media nei paesi ricchi e tale contrazione avrà di sicuro dei gravi effetti a lungo termine. Il consumo dei super-ricchi non può sostituire il consumo di un grande numero di membri della classe media. La produzione di automobili è già più alta della domanda e questo sta accadendo per molti prodotti. La povertà globale è in diminuzione, ma paese dopo paese la disuguaglianza sta crescendo.
La seconda pecca è che i ricchi non pagano più le tasse come prima, a causa dei numerosi benefici fiscali introdotti ai tempi della presidenza di Ronald Reagan. “La ricchezza produce ricchezza e la povertà produce povertà”. Il presidente francese François Hollande ha scoperto a sue spese che oggi non si può tassare il capitale, perché questo è considerato sacro.
Almeno 300 miliardi di dollari in entrate fiscali vanno perduti a causa di una combinazione di incentivi fiscali aziendali ed evasione delle imprese. Secondo alcuni calcoli quattro trilioni di dollari si trovano nei paradisi fiscali. La storia inoltre non abbonda di esempi di ridistribuzione volontaria e solidarietà da parte dei ricchi e dei super-ricchi.
La terza pecca è molto grave. È superfluo citare qui uno degli innumerevoli esempi di come la politica sia ormai asservita agli interessi economici. Un cittadino comune non ha lo stesso potere di un cittadino super-ricco.
È ironico che la Corte Suprema degli Stati Uniti abbia eliminato ogni limite alle donazioni ai partiti perché tutti gli uomini sono uguali. Ora che le elezioni presidenziali costano all’incirca 2 miliardi di dollari, si può dire che un cittadino comune sia uguale a uno Sheldon Adelson, il magnate statunitense che ha ufficialmente donato 100 milioni di dollari al Partito Repubblicano? Non è stato un grande sacrificio, visto che l’anno scorso la sua fortuna è cresciuta di oltre 14 miliardi di dollari!
Un simile andamento fa bene alla democrazia? I super-ricchi non sono una preoccupazione? Questo è quanto ci viene detto, questo è quanto vogliono farci credere…
Traduzione dall’inglese di Cecilia Benedetti. Revisione di Anna Polo