«Sono iniziative che non vanno a vantaggio di Sarajevo, né dei sarajevesi e che hanno riaperto una battaglia tra di noi, su Gavrilo Princip. Adesso, per una metà dei bosniaci, Princip è un terrorista, per l’altra metà è un eroe. Che bisogno avevamo ora di discutere di queste cose? Abbiamo un paese, la Bosnia Erzegovina, completamente distrutto: non funziona, non esiste. E i politici europei verranno qui per una settimana sorridenti, con i palloncini colorati, con le grandi dichiarazioni, a ricordare l’amore dell’Europa per Sarajevo e i principi europei. Si tratta di un incredibile cinismo: se c’è un luogo dove i principi europei vengono abbandonati, questo è Sarajevo. Queste “celebrazioni” non sono altro che un’occasione meravigliosa per lavarsi la coscienza, per organizzare qualcosa di positivo, per una grande festa, in un momento in cui la situazione europea è drammatica, con la guerra sempre più presente, l’estrema destra sempre più forte ed il progressivo abbandono degli ideali di libertà e cosmopolitismo».
Ripresa dalla stampa internazionale, l’intervista a Zlatko Dizdarević, intellettuale, scrittore, ambasciatore in passato della Bosnia Erzegovina in Medio Oriente, cittadino di Sarajevo, è al tempo stesso un invito alla riflessione e un monito doloroso contro il cinismo o il protagonismo di quanti, sul fronte politico o sociale, si apprestano a “commemorare”, nelle celebrazioni istituzionali o in controverse kermesse come il “Peace Event” del prossimo giugno, i cento anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Se le celebrazioni sono un modo, più o meno avvertito, di “lavarsi la coscienza” o “piantare una bandiera” in un certo segmento politico o sociale, l’invito alla riflessione sulla memoria, la sua funzione e il suo uso, diventa ancora più esigente ed impegnativo. Il tema della “memoria” ai fini del lavoro di pace è infatti, decisivo. Nella misura in cui i poteri cercano di dominare il presente per condizionare il futuro, è il passato l’unico terreno davvero a disposizione dell’uso e dell’abuso, della manipolazione e ricostruzione della memoria, funzionale a ridefinire un’immagine di presente o legittimare una certa “narrazione”.
Nei luoghi del post-conflitto, questo esercizio si fa persino scoperto e, per certi aspetti, ancora più cattivo. Prendiamo il caso della narrazione della storia. I sostenitori delle diverse kermesse che si moltiplicheranno a Sarajevo, più volte hanno dichiarato non essere loro intenzione di fare della “storiografia” sulle cause della guerra e sulla figura di Gavrilo Princip. Il giudizio, negativo e “di parte”, su questa figura è tuttavia men che implicito sin nella piattaforma del Peace Event, almeno laddove si dichiara che lo scoppio della Prima Guerra Mondiale “fu innescato dall’assassinio dell’erede al trono austro-ungarico, a Sarajevo, il 28 giugno 1914”. Tale giudizio è “di parte” almeno nella misura in cui corrisponde esattamente alla narrazione storica di una sola delle parti in causa. Persino i libri di testo scolastici, nella Bosnia musulmana, parlano del colpo di Sarajevo come di un “assassinio” o di un “attentato”, di Gavrilo Princip come di un “terrorista”, del suo movimento irredentista, la “Giovane Bosnia”, come di un gruppo terroristico o pan-serbo, talvolta, perfino come una Al Qaeda ante litteram.
In un’altra intervista, Nenad Šebek, direttore del Centro per la Democrazia e la Riconciliazione nel sud-est Europa, spiega con chiarezza che «in Serbia sopravvive la vecchia narrazione della ex Jugoslavia in cui si sostiene che la Prima Guerra Mondiale è avvenuta perché è esistito un grande eroe di nome Gavrilo Princip: ha ucciso l’Arciduca Francesco Ferdinando, che rappresentava la personificazione delle forze occupanti dell’Austria-Ungheria, poi l’Austria-Ungheria e l’Impero Tedesco hanno invaso la Serbia ed i Serbi hanno combattuto e sofferto durante la guerra pur essendo “dalla parte della ragione”». Meno approssimativamente, la storiografia ufficiale nella Bosnia serba ed in Serbia sostiene che la causa generale della Prima Guerra Mondiale è stata quella che potremmo definire la “contraddizione inter-imperialistica”, “la lotta tra le grandi potenze per il controllo economico ed il dominio politico in Europa”, per cui l’Austria-Ungheria ha “utilizzato” l’assassinio di Sarajevo come pretesto per la guerra. Una narrazione, tra l’altro, più nota e frequente, tra quelle meno strumentali, anche dalle nostre parti.
Se la coltivazione di una memoria nazionale attraverso la narrazione di una memoria collettiva (tra le varie e diverse che abitano una determinata comunità) è un esercizio frequente presso i poteri costituiti, la contrapposizione delle memorie è sempre un esercizio di violenza, uno strumento di esclusione e di separazione, un comodo alibi intellettuale o un vero e proprio effetto di guerra. A Sarajevo, oggi, la contrapposizione è fisica, non solo nello spazio geografico delle due entità (la Federazione Croato-Bosniaca e la Repubblica Serba di Bosnia), ma anche nell’esercizio della memoria storica. Come ha dichiarato in un’altra intervista il sindaco della Sarajevo Serba (Istočno Sarajevo), Nenad Samardzija, «una volta vivevamo tutti nello stesso Stato, la Jugoslavia e non abbiamo mai guardato ai fatti del 28 giugno 1914 come ad un atto terroristico, come alcuni cercano di fare oggi. Abbiamo guardato a quello come ad un movimento, soprattutto di giovani, che volevano liberarsi dal dominio coloniale». Non a caso, i Serbi (e non solo), che hanno disertato la celebrazione sarajevese, ricorderanno la catastrofe del 1914 con altre iniziative, intorno a Višegrad, la città resa famosa da Ivo Andric e dal suo Ponte sulla Drina.
L’articolo rappresenta il testo del contributo alla XX edizione della “Marcia della Pace” promossa dalla Città di Napoli in collaborazione con l’UNICEF, il 22 maggio 2014, in occasione della “Giornata Ecumenica Internazionale per la Pace”.