All’inizio di marzo un gruppo di 50 studenti israeliani aveva scritto una lettera al primo ministro Netanyahu dichiarando a chiare lettere di opporsi al servizio di leva militare obbligatorio. Nella lettera i giovani affermavano di rifiutarsi di far parte di un esercito che promuove l’occupazione di un altro popolo, viola costantemente i diritti umani e perpetua i crimini di guerra, riconosciuti e definiti dalla legge internazionale. Sono i refusenik, un gruppo, benché ancora minoritario, di giovani nonviolenti che si oppongono alla politica di uno stato occupazionista ed espansionista ai danni di un’altra popolazione.
Sempre a marzo la Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato una legge che aveva fatto tanto discutere perché introduce, a partire dal 2017 e per la prima volta dalla creazione dello stato ebraico, la coscrizione militare obbligatoria anche per gli ultraortodossi, che fino ad allora si arruolavano solo come volontari.
Gli ultraortodossi, gli haredim (letteralmente “coloro che tremano davanti alla parola di Dio”) sono circa il 10% della popolazione di Israele, e gravano oggi in maniera significativa sulla sua economia in quanto la maggior parte di loro non ha alcuna occupazione. Sono convinti di servire lo stato con la preghiera e lo studio della Torah e vivono dei benefici che sono stati loro garantiti fino ad oggi. Sono però in netto contrasto con la politica sionista israeliana al potere in quanto sostengono che nessuna decisione politica potrà mai stabilire l’esistenza dello stato d’Israele, il quale potrà essere donato loro soltanto da Dio. Per questo motivo non riconoscono le leggi dello stato e i suoi confini. Negli anni la comunità degli ultraortodossi è cresciuta a dismisura grazie non solo alle ondate migratorie dagli Stati Uniti e dall’Europa orientale ma anche perché molto prolifica. Si stima che la crescita continui in maniera significativa nei prossimi decenni e questo potrebbe diventare un problema per lo stato d’Israele, perché il loro peso politico è destinato a salire in maniera direttamente proporzionale al loro numero.
Dunque Israele deve trovare un modo per inserirli attivamente nella vita politica prima che questo avvenga e che il divario tra ultraortodossi e riformisti sia troppo grande da gestire. In prospettiva di questa crescita lo stato ebraico non può più permettersi che una fetta così consistente della popolazione non partecipi attivamente anche alla vita militare attraverso la leva obbligatoria, 3 anni per gli uomini e 2 per le donne.
Non partecipare alla vita politica e militare del paese, e peggio disertare l’esercito, che sia per motivi religiosi o ideologici, comporta dei rischi che i giovani israeliani non possono sottovalutare. Quelli che disertano rischiano prima di tutto il carcere e poi l’emarginazione dalla società. +972 Magazine e Social Tv, una testata online e un’emittente israeliana che promuovono il cambiamento e la giustizia sociale, i diritti umani e l’uguaglianza, hanno raccolto le testimonianze di alcuni di loro. “Chi non fa il servizio militare parte da un livello molto più basso nella società israeliana” dice una studentessa intervistata. Per le minoranze etniche presenti in Israele, come gli immigrati etiopi, la questione diventa più complessa “perché a un certo punto”, dice un altro studente obiettore, “dovranno provare la loro fedeltà a Israele, in più non arruolarsi diventa difficile quando a casa non ci sono soldi”.
A questi gruppi di obiettori si aggiungono le numerose organizzazioni non governative che tentano da anni di portare alla luce la realtà della vita quotidiana dei soldati che prestano servizio nei Territori Occupati. Tra queste c’è l’organizzazione Breaking the Silence (letteralmente “rompere il silenzio”), un collettivo di soldati veterani dell’IDF che vuole mettere in luce le difficoltà che i giovani soldati devono affrontare nell’essere costretti a controllare ogni giorno e con la forza la vita quotidiana di un’altra popolazione.
Israele sembra dunque subire una crisi interna, sul piano politico e sociale. Non solo il probabile e imminente fallimento dei negoziati con i palestinesi e le recenti critiche di Kerry circa la responsabilità dello stato ebraico in questo fallimento, ora Israele dovrà confrontarsi anche con le comunità di dissidenti all’interno della nazione. Da una parte gli obiettori di coscienza per motivi politici, dall’altro gli obiettori per motivi religiosi rischiano di creare delle spaccature nella società che potrebbero mettere in pericolo la sua stabilità e che lo stato ebraico non sembra pronto a gestire.
Il movimento dei refusenik si sta allargando sempre di più, anche se rimane ancora marginale tra le fasce più giovani della popolazione, dove la polarizzazione delle posizioni politiche è più forte. Tuttavia potrebbe essere questo un primo sintomo di cambiamento. Un cambiamento che parte proprio dai giovani e che non appoggia più uno stato e un esercito che misurano il valore delle persone con gli anni di servizio militare svolto e che preparano i giovani alla vita militare senza renderli consapevoli del ruolo che andranno a ricoprire.