L’atteggiamento persecutorio che la Lega ha assunto nei confronti di un ministro della Repubblica per il solo motivo che ha la pelle di un colore diverso da quello dei visi pallidi che compongono le fila di questo partito, sta giustamente suscitando molteplici reazioni d’indignazione. Numerose sono le voci che si sono alzate nel condannare il comportamento, senza alcun dubbio razzista, del quotidiano La Padania, che ha pubblicato tutti i prossimi appuntamenti della ministra per l’integrazione Kyenge, con l’implicita intenzione di invitare tutti i razzisti che li leggono a dar seguito ai propri impulsi paranoico-aggressivi.
Il fatto che si esprima indignazione verso il razzismo espresso da un raggruppamento politico quale la Lega, non può che essere interpretato positivamente, ma è necessario fare ulteriori considerazioni, altrimenti si rischia che questa indignazione possa diventare solo una benda che impedisce una visione più completa della realtà.
Dalle parole della maggioranza dei politici e degli opinionisti che si stanno indignando si evince, per esempio, la tendenza a considerare il fenomeno Lega come qualcosa di isolato dal resto della società e in via di decadenza. Purtroppo non è così.
Tale fenomeno, invece, è strettamente associato, tramite fili di congiunzione a volte invisibili, ad altri fenomeni, che compongono il contesto all’interno del quale l’atteggiamento discriminatorio dei leghisti vive e si nutre.
Prima di tutto è ancora in vigore la legge più discriminatoria mai promulgata da quando l’Italia è uscita dal ventennio fascista: la legge Bossi-Fini, che non è altro che una versione più reazionaria della legge precedente, che porta il nome di due esponenti della sinistra italiana, Turco-Napolitano. Grazie a questi due capolavori della legislatura, sul nostro suolo sono operanti dei veri e propri lager all’interno dei quali sono rinchiusi migliaia di stranieri senza aver commesso alcun delitto.
Fuori da questi lager, gli stranieri che vivono nel nostro paese sono marchiati comunque dall’etichetta della clandestinità e, nonostante il termine “integrazione” sia una delle parole più usate nei discorsi di molti politici autodefinitisi democratici, continuano ad essere considerati degli ospiti, nel migliore dei casi sopportati, nonostante che con il loro lavoro contribuiscano a riempire le casse dello Stato. La politica non è stata ancora in grado di promulgare delle leggi che permettano ai migranti che vivono nel nostro paese di essere considerati dei cittadini come tutti gli altri, con tutti i diritti che ne conseguono.
Tutto questo, d’altronde, è più che coerente con ciò che succede nel resto d’Europa, un continente in cui i governi nazionali non riescono a trovare accordo su nulla, tranne che sul prendere provvedimenti respingenti ed espulsivi nei confronti delle tante persone che fuggono dalla fame e dalla guerra e cercano in Europa una possibilità di sopravvivenza.
Ma non finisce qui. Se allargassimo ulteriormente lo sguardo, vedremmo che le misure restrittive e repressive non si fermano ai migranti. La cosiddetta “sicurezza” è diventata la ragione principale per cui tutto è diventato lecito pur di garantire la libertà d’azione di chi continua ad accumulare ricchezza.
Ed ecco che, quasi impercettibilmente, si passa dalla discriminazione razziale alla discriminazione globale: al di fuori di una cerchia molto ristretta di persone, tutti gli altri sono sottoposti ad una progressiva riduzione di quei diritti fondamentali che possono contribuire a rendere una vita degna di essere vissuta. E siccome questo processo non da segni di arresto, sempre più persone vivono condizioni di disagio sempre meno sopportabili. Ciò determina la necessità che lo Stato debba munirsi di misure di sicurezza sempre più efficaci e infatti non è un caso che in gran parte dei paesi europei siano ormai in vigore leggi in materia di sicurezza molto più repressive, con il decisivo contributo della tecnologia, di quelle vigenti negli stati fascisti del secolo scorso.
Potremmo continuare in questo esercizio di progressivo allargamento dello sguardo, ma già quello che è stato detto finora potrebbe bastare a rendere meno incompleta la visione della realtà.
Quindi: va bene l’indignazione contro il razzismo di un quotidiano e di qualche centinaio di visi pallidi nei confronti di un ministro. Ma poi?
L’isolamento di questi fenomeni di violenza non si attua considerandoli come se fossero già isolati, ma attuando una politica che spezzi definitivamente i fili che congiungono tali fenomeni ad altri fenomeni di violenza in una rete in cui restano imprigionati non solo i migranti, ma la grande maggioranza degli esseri umani, razzisti compresi.