foto di Fabio D’Errico
Riflessioni di una famigliare di desaparecidos dopo l’inondazione dell’archivio storico della fondatrice di “Abuelas de Plaza de Mayo”
Lo scorso 3 dicembre è stato il compleanno di Diana Teruggi, una zia che non ho mai conosciuto, perché l’hanno uccisa nel novembre del ’76. Eppure, la sua morte è solo un dettaglio, e la sua vita è diventata invece un simbolo di coraggio e di resistenza.
La mia è una famiglia argentina come tante, attraversata e spezzata dalla dittatura militare che ha avuto luogo tra il 1976 ed il 1983, anche se gli strascichi perdurano, e a volte penso che perdureranno per sempre, altra vena aperta di questa America Latina.
Diana è nata a La Plata il 3 dicembre del 1950. Figlia di Mario Teruggi, di origine piemontese, e di “Kewpie” Dawson, una “yankee”, come chiamiamo qui gli statunitensi. Sorella di Lilia Teruggi, mia mamma.
I fratelli la descrivono come una persona estremamente gentile e corretta, studiosa e forse anche un po’ “secchiona”. A me ha sempre fatto ridere il modo in cui si vestiva, col tipico cattivo gusto anglosassone che sicuramente aveva ereditato da mia nonna. Ma il suo tratto più distintivo era il sorriso, aperto e generoso, come ce l’hanno diverse persone nella famiglia. Secondo me è un sorriso meraviglioso.
Era militante dei Montoneros, un gruppo armato del peronismo di sinistra. La sua cellula si dedicava a stampare clandestinamente la rivista “Evita Montonera”. Proprio per questo, nel patio posteriore della casa che aveva comprato insieme a suo marito, Daniel Mariani, avevano fatto costruire una tipografia segreta: si trovava dietro un “falso muro” e vi si accedeva attraverso uno spiraglio che si apriva attivando un sistema elettrico che faceva scorrere un piccolo blocco di cemento.
La successione degli eventi, come si sa, fu tragica. Nell’agosto del ’76, l’anno più caldo della storia politica Argentina, Diana e Daniel ebbero una figlia, Clara Anahì. Il 24 novembre dello stesso anno la loro casa, nella “calle 30” della città di La Plata, fu violentemente attaccata dalle forze della polizia, dai militari e dalla marina. Circondarono la casa, spararono per tre ore di fila per poi, quasi per sfregio, bombardarla. Tutte le persone che erano dentro furono uccise, Diana morì nel patio posteriore, sotto il suo albero di limoni.
I Montoneros avevano delle regole chiare in caso di attacco, mentre loro avevano l’obbligo di resistere, i bambini andavano protetti in luoghi più sicuri, per esempio dentro la vasca da bagno coperti con dei materassi.
È lì che probabilmente i militari trovarono Clara Anahì, uscita miracolosamente viva dall’attentato. Ma quello stesso giorno fu sequestrata, entrando a far parte del “bottino di guerra”: i circa 500 figli di desaparecidos che stiamo ancora cercando. Finora ne abbiamo trovati un centinaio (109 per la precisione), ma Clara Anahì non è tra loro.
Non sono una persona molto sentimentale, credo che la parola stessa sia in realtà un inganno: la congiunzione tra i vocaboli sentire e mentire. Non riesco a capire quel romanticismo dilagante intorno al quale si costruiscono le descrizioni delle vittime della dittatura, facendoli diventare eroi in ogni gesto quotidiano. Erano, in fin dei conti, persone “normali”: uomini e donne che militavano (o no), studiavano o lavoravano, amavano e odiavano, si sbagliavano, probabilmente piangevano e sicuramente hanno avuto paura. Creo sia in questa loro normalità che sta tutta la loro potenza, la loro bellezza e la loro identità lontana da ogni romanticismo. Trentamila di queste persone normali sono scomparse e tantissime altre sono sopravissute portando la doppia croce della tortura e del senso di colpa per essere stati graziati.
Fu invece la Storia a renderli eroi, al di là delle loro biografie, come cittadini immolati per una serie di diritti sociali fondamentali, ma troppo lontani dagli interessi economici dell’oligarchia nazionale e internazionale. E così, mentre i familiari e agli amici più stretti affrontano il lutto cercando di conciliare l’immagine della propria persona cara con quella che ha assunto per il resto della società, a noialtri rimane il doveroso carico della memoria, della verità e della giustizia.
Non ho mai conosciuto né mia zia né mia cugina, non posso avere sentimenti diretti per loro. Sono nata nell’80 e la dittatura è stata per me in primo luogo la paura irrazionale che mia madre aveva che venissero a sequestrare anche me.
Con gli anni però ho conosciuto la storia di Diana e Daniel: me l’hanno raccontata i miei con la sensibilità di chi ha ancora una ferita aperta, l’ho letta in molti testi e ne ho sentito parlare in altrettanti processi. Ho conosciuto i dettagli della Diana privata, donna, sorella e madre, e ho conosciuto anche la potenza della Diana pubblica, eroina della resistenza. Così, in qualche modo, ho cominciato a volergli bene, bene davvero, e a sentire per lei un orgoglio enorme e una profonda gratitudine. Allo stesso modo, mi ritrovo spesso a guardare le poche foto di Clara Anahí, nelle quali nonostante i suoi soli 3 mesi posso riconoscere l’inconfondibile e familiare sorriso.
“Todo está guardado en la memoria”, la memoria custodisce tutto, è il ritornello di una canzone che risuona costantemente. Per noi la memoria è un rifugio, per i militari una condanna. Ma c’è chi la memoria la custodisce più degli altri, chi della sua vita ha fatto uno scrigno inespugnabile di memoria.
Quest’anno voglio fare un tributo a “Chicha”, nonna paterna di Clara Anahì, perché è grazie a lei che la memoria dei miei zii è diventata memoria nazionale. Lei ha dedicato la sua vita alla ricerca della nipote, e la sua casa alla conservazione di tutti i documenti raccolti in questo lungo percorso.
María Isabel Chorobik de Mariani, detta Chicha, è stata la fondatrice dell’Associazione Abuelas de Plaza de Mayo, che ha presieduto fino al 1989, per poi fondare l’Associazione Anahì dedita alla ricerca dei nipoti scomparsi e alla difesa dei diritti umani. Inoltre, è stata lei che ha trasformato la casa di “Calle 30” in un museo che ogni giorno tesse impercettibilmente la trama della nostra memoria collettiva.
La sua casa è letteralmente un archivio, lì sono conservati importantissimi documenti penali, atti giudiziari, documenti e fotografie di desaparecidos, informazione riservata sui militari ed i responsabili dei sequestri di bambini, e migliaia di lettere di appoggio da tutto il mondo. Lei è l’unica persona nel paese ad avere il permesso di registrare processi e sentenze, diventando così un punto di riferimento nazionale per tutti gli avvocati impegnati in questo genere di cause.
L’importanza della sua casa è indiscutibile di per se, ma è stata anche riconosciuta dall’UNESCO come Archivio Storico dell’Umanità.
Voglio farle un tributo, dicevo, perchè questo 2013 è stato probabilmente l’anno più tragico dopo la scomparsa di Clara Anahì, perché Chicha ed il suo archivio sono stati sommersi dall’inondazione provocata dall’alluvione che il 2 Aprile scorso che ha colpito la città de La Plata, lasciando numerose vittime e centinaia di senza tetto.
Non è solo un capriccio della natura, quello che è successo a La Plata è anche responsabilità di una gestione urbana socialmente insostenibile e ambientalmente incosciente. E’ la follia dell’accumulazione senza limiti, della speculazione immobiliare, che ha come correlato l’impermeabilizzazione del suolo urbano e quindi l’incapacità di contenere grandi quantità d’acqua.
La casa di Chicha fu sepolta d’acqua mentre lei era a letto. Fortunatamente, riuscì ad alzarsi e, con i suoi novant’anni, camminare lentamente verso l’uscita per chiedere aiuto ai vicini del piano di sopra. Loro raccontano che l’hanno trovata in camicia da notte, con l’acqua che le arrivava fino al collo, coperta di foglie d’albero e completamente pallida per il freddo.
Il giorno dopo, mentre La Plata contava i suoi morti, Chicha si alzava di fronte alla sua casa devastata, per cominciare a contare i danni al suo archivio. Danni alla memoria, danni irreparabili. L’acqua raggiunse un metro e settanta, bagnando tutti i documenti che erano conservati sotto quell’altezza: la maggior parte.
Ma così grande come la tragedia fu la solidarietà della gente e la casa di Chicha ed il suo archivio ricevettero nei giorni dopo il nubifragio decine di volontari, molti di loro esperti in conservazione degli archivi e biblioteche locali e provinciali che riuscirono in poco tempo ad organizzare le squadre di lavoro.
Fu una lotta contro il tempo, i fogli andavano asciugati uno per uno con della carta assorbente, per poi essere appesi accuratamente in fili e stendini improvvisati in tutta la casa e nell’enorme garage. Centinaia di mollette colorate irruppero nel grigio uniforme che ricopriva come un manto tutti gli oggetti e i documenti annacquati. La nostra memoria era tutta lì, appesa a dei fili.
Lavorando scoprimmo che dopo le prime 48 ore i fogli umidi cominciano a sviluppare un fungo pericoloso per la salute, quindi cominciarono a piovere donazioni di alcool, guanti di plastica e mascherine.
La gente lavorava in un silenzio religioso, rispettoso, interrotto solo dallo stupore di chi, mentre asciugava o appendeva con delicatezza uno dei fogli, si soffermava sul suo contenuto e lo leggeva con voce spezzata: la condanna all’ergastolo di un militare sanguinario o la lunga lista degli NN con la descrizione agghiacciante dei corpi senza identità trovati nelle fosse comuni. Ma c’era anche l’emozione delle lettere di alcuni bambini recuperati dopo il sequestro, quella di Julio Cortázar o di qualche presidente di Stato, la foto di Chicha con Fidel Castro, ecc. Migliaia di frammenti di memoria che dovevano essere salvati dall’oblio e poi accuratamente riordinati.
Nel silenzio abbiamo imparato la storia, la più terribile forse, quella che nonostante gli enormi passi avanti degli ultimi dieci anni non ha ancora trovato giusta condanna e giusto castigo. Grazie alla collaborazione dei volontari e di diverse istituzioni, tante che non posso stare qui a enumerarle, la quasi totalità dell’archivio si è salvato. I documenti asciutti e restaurati potranno ancora testimoniare la loro verità.
Insieme alla storia abbiamo ritrovato anche l’amore per libertà, per la lotta, per l’uguaglianza, per la memoria di una generazione e quello per una donna non conosciuta, Diana.
Ci ha anche reso coscienti dell’impellenza di trovare Clara Anahì, non solo per Chicha e per noi famigliari, ma perché è’ l’intera società che ha bisogno di ricucire le sue ferite per andare avanti.
L’Italia, paese nel quale sono cresciuta, ha la sua parte di responsabilità in questa ricerca. La storica fratellanza tra l’Argentina e l’Italia si è trasformata molte volte in complicità criminale: mentre la prima ha ospitato criminali nazisti che operavano in Italia, alcune autorità italiane hanno stabilito forti vincoli ideologici ed economici con i dittatori argentini.
In diverse occasioni le Abuelas de Plaza de Mayo hanno fatto presente i legami tra i due paesi, per i quali è molto probabile che alcuni dei bambini, oramai adulti, scomparsi durante la dittatura argentina, risiedano in Italia, inconsapevoli della loro vera identità.
Per questo, nell’Ottobre del 2012, rappresentanti di “Hijos” e della Commissione Argentina per il Diritto all’Identità hanno presentato un’iniziativa destinata ad una nuova ricerca dei nipoti scomparsi in Italia, che prevede tra le altre cose la diffusione di informazioni e fotografie negli uffici dell’anagrafe, mentre i consolati argentini in Italia contano con tutti gli strumenti necessari per effettuare il testi del DNA con la massima discrezione.
La presentazione della campagna fu realizzata a Torino lo stesso giorno in cui a Roma si commemorava la scomparsa dei 350 bambini ebrei deportati nei campi di concentramento tra l’ottobre del 1943 e il giugno del 1944. Il ricordo di Levi è inevitabile e le sue parole più che mai urgenti: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”.
Victoria Ayelén Sosa
Buenos Aires, Dicembre 2013