Una riflessione per la Giornata sui Balcani, Festival Cinema Diritti Umani, 11 Dicembre, Napoli
Le istituzioni finanziarie austriache, italiane e greche hanno, sempre più intensamente nel corso degli ultimi venti anni, giocato un ruolo importante nell’economia dei Balcani. Prima dello scoppio della crisi economica nell’Unione Europea, giusto per limitarci alla sfera inter-balcanica, le banche greche hanno rappresentato un fattore importante nel finanziamento dell’economia della regione, con oltre 1.900 sportelli bancari ellenici, oltre 23.000 dipendenti nella regione e un volume di capitale di ca. 70 miliardi di euro.
Tale importo, in termini relativi, rappresenta il 15% della base di capitale delle banche nei Balcani, un volume niente affatto irrilevante e soprattutto, dal punto di vista qualitativo, una base importante per le economie della zona, a loro volta alimentate dai crediti di queste banche, come da quelle di provenienza austriaca e italiana. Basta fare un giro nelle city di Belgrado, Ljubljana e Zagabria per farsene una idea.
Gli ultimi cinque anni di crisi hanno avuto effetti gravissimi, nei Balcani. Anche se per molte controllate straniere gli affari sono proseguiti e la presenza sul mercato regionale dei capitali non è mai venuta meno, le banche greche, in particolare, hanno risentito della crisi interna, molti capitali sono stati drenati verso i confini nazionali e, in tal modo, la crisi del credito nella regione ha finito con l’essere ancora più pronunciata.
La crisi economica e finanziaria nei Balcani è strettamente legata alla crisi economica e finanziaria della zona euro, dal momento che, più che di un’economia di scala, si tratta di una vera e propria economia di blocco. Due terzi del commercio dei Paesi dei Balcani Occidentali si svolge con i Paesi dell’Unione Europea. La riduzione delle esportazioni verso l’UE, la contrazione simultanea degli investimenti stranieri e del mercato interno e la diminuzione delle rimesse dagli immigrati nell’UE hanno accelerato la crisi nella regione.
Sebbene tentativi siano in corso di diversificare i partner economici, la Serbia continui a mantenere un legame economico speciale e una zona di libero scambio con la Russia, l’attivismo cinese con il partenariato europeo-orientale sia cresciuto, le conseguenze della crisi non sono secondarie. Un terzo dei cittadini, nella media dei Balcani Occidentali, è appena sopra o già sotto la soglia di povertà relativa, i tassi di disoccupazione, in alcuni Paesi, sono secondi solo a quelli della Grecia, è tornata l’emigrazione per motivi di tipo economico.
Come ha dichiarato Milica Delević, vicesegretario generale della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, in una conferenza internazionale della Fondazione Friedrich Ebert, l’Unione Europea ha finito per esportare la sua crisi nei Balcani. La crisi dei Balcani è anche crisi dell’Europa. Ieri vi si scaricavano i venti di guerra dell’imperialismo euro-atlantico, oggi vi si riverberano gli effetti della crisi del capitalismo euro-occidentale.
La crisi attuale ha spinto l’Unione Europea a concentrarsi solo sui “propri” problemi economici e sulla tutela del “proprio” mercato interno. Il caso della Germania è eclatante, non secondario neanche nella vicenda balcanica, visto il ruolo preponderante che Berlino gioca in molti mercati della regione. Non sfuggono peraltro le implicazioni strategiche e i pilotaggi politici della crisi: una nuova ondata di privatizzazioni è stata lanciata (eclatanti i casi della Croazia e della Serbia) ed una nuova stagione di “austerità” e di “tagli” è stata varata.
Come la lunga teoria di guerre balcaniche ha scomposto il tessuto sociale e divelta la condivisione delle memorie, così la crisi incide sulla fiducia e morde le condizioni di vita delle comunità. Sulla crisi insistono peraltro anche i fattori produttivi e la formazione professionale. Come ha detto Gerald Knaus, presidente dello European Stability Initiative, la prosperità economica dipende (anche) dal livello di istruzione e di formazione.
Il livello di istruzione e la qualificazione della forza-lavoro nei Paesi balcanici industriali (Slovenia, Croazia e Serbia) sono medio-alti e le università storicamente presenti in tali Paesi contribuiscono a mantenere alto il livello di istruzione e formazione, a dispetto di alcuni scandali (ad es. in Serbia) scoppiati nel mondo-scuola. L’Università di Belgrado, nella classifica di Shanghai delle Università oggi censite, è tra le prime 400 al mondo.
Al di là della qualità e degli orientamenti delle leadership nazionali, però, un ruolo importante potrebbe e dovrebbe essere svolto dall’Unione Europea. Recentemente il commissario europeo all’allargamento Stefan Füle, ha annunciato il lancio di una nuova strategia politica per l’allargamento a partire dal 1 Gennaio 2014, ma sin qui l’UE ha mancato insieme di coraggio e visione nel prospettare ai nuovi Paesi l’adesione europea.
Occorrerebbe affrontare come tema-chiave, politico-culturale, non solo economico-procedurale, l’ampliamento e fare finalmente dell’Europa quel global player sulla scena mediterranea e mondiale di cui si avverte il bisogno.