Focus Group con Fisnik Kumnova e Mehmet Kaçamaku, attivisti di Mitrovica, Kossovo
Un pomeriggio nuvoloso di ottobre ci troviamo nell’Hit Bar di Mitrovica, Kossovo, nella cosiddetta “Confidence Area”, proprio nel mezzo, sulla linea di confine tra sud e nord. Siamo con Mehmet Kaçamaku e Fisnik Kumnova, due attivisti impegnati in diversi progetti culturali e sociali in Kosovo, con lo scopo di migliorare la situazione e potenziare le relazioni tra tutte le parti e le comunità che vivono in questo luogo, nel cosiddetto “scenario del Kosovo”.
Nella prima parte di questa intervista esclusiva, vorremmo focalizzarci sul tema principale di questa discussione, anche considerando che questa sarà affiancata e supportata da un’altra pubblicazione che sarà online per indirizzare e dare un aggiornamento sulla situazione in Kosovo, e in particolare a Mitrovica. Questo particolare momento a metà tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, è un momento cruciale, storico da una parte, per via dei progressi nei negoziati per l’adesione del Kosovo all’Unione Europea e le imminenti elezioni amministrative del 3 Novembre 2013. Pertanto, prima di cominciare, vorrei che vi presentaste ai lettori delle differenti agenzie pacifiste e nonviolente e delle testate online.
Grazie. Sono Fisnik Kumnova e vengo da Mitrovica, lavoro qui da quando avevo 16 anni e ora ne ho 25. Vorrei sottolinearlo perché da quando ero alle scuole superiori sono stato impegnato in campagne e attività di volontariato e progetti sociali, focalizzate ad ottenere una società migliore e una comunità più aperta e fiorente e allo stesso tempo a formare una gioventù più impegnata, forte ed informata, in modo che i comportamenti pacifisti e l’approccio ai diritti umani diventino il giusto modo di affrontare le dispute e i conflitti. Ho lavorato spesso nelle ONG civili e al momento sto lavorando su progetti di mediazione che è qualcosa di abbastanza nuovo e innovativo qui a Mitrovica. Ho anche parecchia esperienza nella rappresentazione internazionale della nostra società, specialmente attraverso programmi giovanili e culturali in tutta Europa e ogni volta ho avuto la possibilità di presentare Mitrovica come una città e il Kosovo come una società, anche per riempire le lacune conoscitive circa la situazione qui.
Mi chiamo Mete Kaçamaku e lavoro da quando ho 20 anni, per la maggiorparte del tempo “illegalmente”. Dopo la guerra ho iniziato a lavorare in un dipartimento di informatica e sono stato praticamente amministratore per quattro anni, poi ho iniziato a lavorare anche come free-lance, dando consulenza e supporto sul progresso informatico e i nuovi programmi, anche attraverso la Chiesa Cattolica qui in Kosovo. L’ultimo lavoro che ho fatto è stato come free-lance per il M-M@C (Mitrovica Magazine), dove ho lavorato come traduttore in tre lingue. A volte lavoro anche come volontario per Handikos (un’organizzazione di supporto ai bambini con diverse disabilità, che coinvolge anche bambini senza alcuna disabilità) ed ero attivo in progetti e iniziative sociali legate all’informatica e alla comunicazione, sviluppo e potenziamento, cittadinanza e volontariato. Mi sono appena laureato in Management Intenazionale e ora voglio continuare a portare avanti questo impegno sociale.
Avete passato in Kosovo gran parte della vostra vita e del vostro tempo ed è qui che continuerete a lavorare e a spendere le vostre energie, soprattutto a Mitrovica. Parliamo allora di Mitrovica, perché pensate che Mitrovica abbia una sorta di caratteristica speciale qui in Kosovo e perché pensate che la comunità internazionale dovrebbe avere uno speciale riguardo e interesse in una città come questa, con queste caratteristiche e particolarità? Che sensazione si ha a vivere in una città dei Balcani come Mitrovica?
FK: Questo è uno dei luoghi più complessi del Kosovo ed era anche una delle aree più multietniche dell’intera ex-Yugoslavia, all’epoca era per il 60% albanese e per il 40% serba. Poi c’erano molte altre nazionalità, ma circa il 10% di quel 40% erano comunità di bosniaci e rumeni, ashkali ed egiziani. Prima della guerra del 1998-1999 e nel sistema precedente, avevamo potere sia sociale che economico. Quando dico potere economico voglio intendere la presenza qui di Trepça Mines che ha dato lavoro a migliaia di lavoratori. Avevamo il benessere sociale e anche il potere del popolo che sapeva bene che la sua grande diversità era in realtà una ricchezza e un valore. Dovunque c’è diversità ci sono ricchezza e valori e una giusta competizione. Trovandosi nel mezzo è facile avere una visione pragmatica per concentrarsi sulle cose e indirizzare bene i propri obiettivi. Dopo la guerra, Mitrovica è diventata una delle città più povere del Kosovo e di tutti i Balcani e questa contraddizione è adesso proprio la sua caratteristica principale e il senso stesso di Mitrovica. Prima della guerra è stata la città più industrializzata di tutta la regione, con una ricca realtà economica, sociale e culturale, mentre adesso, dopo la guerra, siamo la città più povera dell’area, con molti problemi e disservizi. Di conseguenza questa è anche l’area della regione (e una delle aree di tutti i Balcani) con la percentuale più alta di disoccupazione giovanile, circa il 60%. Per me Mitrovica rappresenta ora la ferita del conflitto che sta ancora “congelando” e paralizzando la società, perché nessuno è stabile nella sua posizione, nel suo stato d’animo e nella sua casa; magari il resto del Kosovo è stabile in diversi modi e si sta sviluppando poco alla volta, ma Mitrovica, come dicevo, è come un posto dove il tempo si è fermato. Questa è la vera essenza di Mitrovica, e puoi vedere tu stesso com’è qui e capire facilmente che il tempo non passa e che niente sembra cambiare in nessun modo.
MK: Mitrovica per me rappresenta “tutto il mondo”, è qualcosa che è nel mio cuore senza il quale non potrei vivere. Prima Mitrovica era riconosciuta per molti diversi aspetti, ad esempio l’industria, i musei, il cinema, lo sport e il rock e posso facilmente dire, dato che sono un po’ più vecchio di Fisnik, che Mitrovica era la prima città in tutto il Kosovo ad avere un Centro Sportivo, il “Centro Sportivo Minatori”, dove giocava K.B. Trepça, e queste erano caratteristiche interessanti e aspetti importanti della vita di tutti i giorni. Da tutto questo la città è passata a non avere più niente, non abbiamo più niente adesso.
Esistono qui molte caratteristiche e problemi interessanti, come la presenza del fiume Ibar, la situazione delle diverse comunità che vivono in questo luogo, le ferite della guerra e le conseguenze del conflitto, che riguardano il passato ma anche la situazione attuale a Mitrovica. Quindi, com’è ora la situazione sulla divisione delle due principali comunità che vivono qui, albanesi e serbi del Kosovo?
FK : Dopo la guerra del 1998-1999 e i bombardamenti della NATO nel 1999, Mitrovica è stata divisa geograficamente in due parti: la parte settentrionale, dove la maggioranza della popolazione è serba, e non si accettano le istituzioni del Kosovo e si vive come una sorta di “vita parallela” nell’organizzazione delle strutture e dell’amministrazione, e la parte meridionale, che è parte integrante del quadro amministrativo e istituzionale del Kosovo, dove la maggioranza della popolazione è di etnia albanese. In questo modo, questa divisione, essendo una divisione geografica, creata dal conflitto e dal potere, è diventata anche una divisione nelle menti e nelle percezioni, dal momento che ogni comunità, negli ultimi quattordici anni, si è sviluppata all’interno e non all’esterno. Per questo le varie comunità sono state bloccate e barricate da impatti esterni, senza la consapevolezza di cosa stava accaduto a dieci metri dal fiume o cinquanta metri oltre il ponte. Praticamente le due comunità si scambiavano e condividevano in qualche modo idee, pensieri, valori, ma non a Mitrovica: dovevano andare a Roma, a Vienna, a Bruxelles per discutere sui loro stessi problemi, ma non in città e nel luogo in cui vivono. Questo è un modo per alimentare sempre di più il conflitto piuttosto che aiutare la risoluzione della pace e la riconciliazione nonviolenta attiva nel paese.
MK: A mio parere, le due comunità sono praticamente uguali, vogliono o desiderano in fondo le stesse cose, vogliono vivere insieme in una situazione di pace e migliore di quella in cui effettivamente vivono, ma la politica e alcuni leader politici vogliono (o hanno bisogno) che esse facciano il contrario. Ho parlato con diversi ragazzi della questione del cosa possiamo fare, del come si può gestire la situazione, come si può vivere insieme, e il problema è riuscire ad “andare oltre”, superare (e trovare un modo per farlo) l’attuale situazione. È come se davvero volessimo cercare un futuro migliore e un modo per vivere insieme e allo stesso tempo non fossimo autorizzati a farlo, perché ad altri livelli la politica sta facendo il contrario.
Come possiamo rendere tutto questo possibile, realizzabile e concreto? Personalmente, sono venuto qui in Kosovo, per seguire varie attività e progetti, diverse volte a partire dal 2004-2005 fino ad oggi, e mi sembra ci sia, di volta in volta, sempre meno attenzione ai programmi e ai progetti di costruzione della comunità, di rafforzamento della fiducia e ai processi di riconciliazione tra le comunità e attraverso la loro divisione. Sembra che l’attenzione si stia spostando verso i temi dello sviluppo, del mercato del lavoro, del decollo economico, problemi fondamentali e concreti per la vita quotidiana delle persone e della società, e ancor meno attenzione si da a questioni ugualmente importanti per lo sviluppo civile e sociale, come la costruzione di una fiducia collettiva, tra le persone e tra i gruppi. Pensate che ci sia una reale necessità di riconciliazione, qui e ora, e come pensate sia possibile migliorare le cose e fare passi in avanti concreti nella giusta direzione? Cosa potete e cosa possiamo fare in modo molto concreto per cercare di raggiungere tale obiettivo fondamentale?
MK: Penso che creare posti di lavoro per far lavorare insieme le due parti e le diverse comunità può essere positivo, ma possiamo anche provare a farlo attraverso altri progetti. Ecco, da questo punto di vista nessuno implementa nulla, quindi la situazione dovrebbe molto migliorare. Come ho detto prima, la colpa è soprattutto della politica perché le persone non hanno quello che meritano di avere e dovrebbero avere politici migliori di quelli che effettivamente hanno. Quindi, il mio consiglio è di tenerci lontani da persone di questo tipo, dai cattivi politici e farli agire in modo diretto per trovare soluzioni per lavorare insieme.
FK : Hai sollevato una questione molto delicata anche perché qui abbiamo le tue stesse percezioni. Vorrei iniziare, come hai fatto tu, parlando di quali sono le esigenze delle persone, qui e ora. I bisogni della gente, soprattutto dopo la guerra, sono stati sostanzialmente la ricostruzione e lo sviluppo. Subito dopo la guerra – diciamo tra il 1999 e il 2004 – si parlava di “sviluppare la costruzione del Kosovo” o di “costruire uno Stato”, di quello che di solito è chiamato “State Building”. Dal 2004 ad oggi la parola magica è diventata “transizione” verso uno stato auto-sostenibile, soprattutto dopo la dichiarazione di indipendenza del 2008.
Tutte queste fasi erano effettivamente basate sui bisogni del popolo o sulle percezioni di quelli che sono (o che dovrebbero essere) i bisogni delle persone: nel senso che, se siamo riusciti nella prima fase, allora possiamo andare alla seconda; se abbiamo superato con successo la seconda fase, ecco che arriviamo anche alla terza, ma se non abbiamo passato con successo la seconda fase cruciale, allora rimaniamo ancorati a quella per anni. Quindi ad un certo punto la domanda è: qual è stata la causa di tutto questo? E la risposta, qui in Kosovo è: corruzione, nepotismo, mancanza di stato di diritto, carenza di capacità (soprattutto a livello amministrativo e istituzionale) e carenza di partecipazione e assertività della società civile e del mondo delle ONG.
All’inizio certamente avevamo la necessità di avere un tetto sulla testa, una casa, un posto dove stare dopo la guerra e la distruzione, ora la necessità principale è lo sviluppo economico, e quello che la gente dice con tutta sicurezza è che se ci sarà lo sviluppo economico non avremo più tensioni o problemi tra le comunità, perché le cose che ci uniscono, come albanesi e serbi, sono i problemi, dal momento che entrambe le parti, a parte estremismi, ideologie e affiliazioni politiche, hanno le stessa necessità: un lavoro, un’occupazione e uno sviluppo socio-economico, perché entrambe le parti aspirano a un futuro migliore piuttosto che all’attuale situazione estremamente negativa. Subito dopo la guerra era impossibile trovare serbi e albanesi lavorare insieme, mantenendo la loro posizione, il loro salario e che riuscivano a tirare avanti in modo adeguato, ma dall’altro lato quelli che lavoravano, e magari lavoravano insieme, con il loro salario e con favorevoli condizioni di vita, non si facevano la guerra, perché tutti i loro bisogni basilari erano soddisfatti.
Si dovrebbe lavorare insieme per interessi comuni sugli stessi progetti e con le stesse aspirazioni a un futuro migliore. Ti chiedi perché il sostegno politico ed economico per progetti di costruzione della comunità, di rafforzamento della fiducia e di riconciliazione sono stati ridotti negli ultimi anni? Perché la società civile non è vista o considerata adeguata in questo senso. Il processo di riconciliazione è già salito al livello politico e questa dovrebbe essere la differenza rispetto al passato recente, dal momento che la politica, l’amministrazione e le istituzioni hanno confiscato i mezzi per la riconciliazione e la fiducia che precedentemente avevano in mano la società civile e le ONG civili, affidandosi direttamente a Pristina e Belgrado.
Dopo l’accordo bilaterale del 19 Aprile 2013, tra Belgrado e Pristina per risolvere le questioni concrete sul territorio (come l’istituzione di una Comunità dei Comuni serbi, la riforma dell’istituzione serba in Kosovo, le questioni circa le forniture di acqua, energia, comunicazione, ecc…) e per normalizzare le relazioni tra le due capitali, Belgrado ha ottenuto l’Accordo di Associazione e Stabilizzazione con l’Unione europea entrato in vigore dallo scorso 1 settembre 2013, mentre Pristina è entrata nella fase di pre-adesione, aprendosi la strada verso la propria Associazione e Stabilizzazione. Quali sono le vostre percezioni su questo accordo e su un futuro possibile per il Kosovo nel suo cammino europeo?
FK: Entrambe le parti sono entrate in questo processo, perché una delle condizioni era che se si voleva entrare nella UE doveva esserci un dialogo. Non importa se riconoscono se stesse o non si riconoscono l’un l’altra, è come una pre-condizione. Allo stesso tempo, il primo ministro del Kosovo, Hashim Thaci, ha dichiarato che questo dialogo conferma la stabilità, la sostenibilità e la “sovranità” del Kosovo, che personalmente non ritengo completamente vero. Secondo il Trattato di Lisbona e i Regolamenti Europei, un accordo può essere firmato dall’Unione europea con qualsiasi entità o territorio in base a determinate condizioni, non importa che sia riconosciuto o meno. Il Kosovo non è riconosciuto e se il nostro governo dice che questo è un “riconoscimento” dell’entità statuale del Kosovo possiamo rispondere che in realtà non conferma proprio nulla. Il fatto che il Kosovo ha avuto il diritto di negoziare per il proprio accordo di adesione è un passo molto importante che ci ha portato ora nella seconda fase, ma ci ha anche “congelati” in essa. Tuttavia siamo ora in ultima posizione nella lista dei paesi che vorrebbero aderire all’UE, dopo l’entrata della Croazia e solo il Kosovo e la Bosnia non hanno ancora la liberalizzazione dei visti.
Dovremmo ottenere l’adesione all’Europa per i nostri meriti non perché facciamo compromessi o perché nascondiamo concessioni a Bruxelles; dovremmo avere la liberalizzazione dei visti perché abbiamo ridotto la quantità di corruzione; e infine dovremmo entrare in fase di adesione europea come conseguenza del conseguimento di una entità statuale adeguata, di uno stato di diritto funzionante e di un sistema economico equo e di sviluppo. La società in Kosovo ha bisogno prima di tutto di un dialogo interno, poi solo quando sarà pronta ci sarà un dialogo adeguato con i vicini, poiché il dialogo è l’unico modo per risolvere i problemi e per affrontare le questioni quando si propongono. Si possono facilmente trovare conflitti congelati in tutto il mondo, ma questo non è più il momento per lasciare congelati i conflitti anche in Europa.
Questo è il motivo per cui io sono per il dialogo, ma con certe premesse, dopo che determinate condizioni e determinati criteri vengano raggiunti e soddisfatti. Ora posso dire che il Kosovo ha fatto molti compromessi anche dolorosi, almeno su determinate questioni. Ad esempio la “nota” che dice: il Kosovo sarà rappresentato nelle sessioni regionali e internazionali come Kosovo «senza pregiudicare le posizioni sullo status e in linea con la risoluzione UNSC 1244/1999 e l’Opinione della ICJ sulla dichiarazione di indipendenza del Kosovo»; o la rappresentazione del Kosovo da fuori; o la ricostituzione di istituzioni serbe nella forma di una “Comunità dei Comuni serbi”. Non è una questione formale ma sostanziale, dal momento che abbiamo accettato il Piano Athisaari (la proposta del 2007 di uno status che pur non menzionando la parola “indipendenza”, incluse varie disposizioni che chiaramente inducevano a pensare al Kosovo come stato, come il diritto di presentare domande di adesione alle organizzazioni internazionali, di creare una Forza di Sicurezza del Kosovo e di adottare simboli nazionali) e lo abbiamo adottato come base per la Costituzione del Kosovo (2008), gli accordi raggiunti a Bruxelles (2013) non sono in linea con il pacchetto Athisaari e interferiscono con la Costituzione stessa.
Quindi l’attuazione degli accordi non sarà semplice e il processo stesso dei negoziati sarà piuttosto complicato, perché il Kosovo ha accettato molti compromessi mentre la Serbia sta mostrando invece tutta la sua forza, e sono convinto e consapevole del fatto che la Serbia potrebbe dire esattamente la stessa cosa: che stanno facendo moltissimi compromessi, che hanno fatto molte concessioni su questioni vitali ecc… Questo è il motivo per cui entrambe le parti sono insoddisfatte e c’è una esigenza comune per risolvere alcuni pre-condizioni e criteri per il dialogo, come ho detto prima, anche per andare avanti correttamente in questo percorso europeo.
MK: Possiamo dire che la Serbia è almeno un passo avanti sulla strada verso l’Europa e, come abbiamo detto prima, siamo uno stato appena nato e quindi abbiamo bisogno di anni per creare le nostre istituzioni e una leadership adeguata alla guida del paese, la quale allo stesso tempo si trova di fronte ad una duplice scelta: dare la precedenza alle richieste, alle domande e ai bisogni delle persone, o decidere di accettare richieste, dialogo e compromessi per compiacere gli altri?
Con l’ultima domanda vorrei centrare il punto e offrire ai lettori italiani una consapevolezza più ampia sugli orizzonti del Kosovo come società e come stato nascente. Come vedete il Kosovo tra dieci anni?
MK: Se la politica rimarrà la stessa e i politici continueranno ad agire nello stesso modo difficilmente riuscirò a vedere qualche passo avanti. Spero che in futuro tutto andrà in modo migliore e positivo. Il Kosovo andrà verso l’UE, ma non credo che effettivamente sia possibile adesso, considerando la situazione attuale.
FK: Il mio pronostico è 50-50: spero in giornate di sole per il futuro, perché il Kosovo è una società giovane, ha molti giovani che sono un enorme potenziale per la società, con le capacità dei giovani possiamo superare molte sfide. Molti pensano in modo giusto che i problemi non sono minacce ma sfide, quindi dobbiamo ora smettere di agire come pazzi e guardare al futuro. Tuttavia per farlo, dobbiamo lavorare su noi stessi, per avere istituzioni più stabili, per accogliere i valori europei, non solo nelle forme ma in realtà nella sostanza e dobbiamo essere giovani europei per meriti e non solo per il gusto essere chiamati così. In futuro magari la democrazia migliorerà, entreranno nel paese investimenti più diretti, più italiani si uniranno alla popolazione del Kosovo, e mi piacerebbe vedere più affari su cui investire e più organizzazioni che condividano progetti e sostengano le comunità locali per superare i problemi e affrontare le sfide. Da parte mia vi invito tutti e non esitate a condividere idee per una maggiore cooperazione tra le nostre società civili, quella italiana e quella kosovara, come grandi partner per il futuro.
Mitrovica, Kosovo: 4 ottobre 2013
Traduzione dall’inglese di Irene Tuzi