Mentre l’attenzione generale è rivolta a congressi di partito e processi eccellenti, a scandali kazaki e padani (dove il vero scandalo sta nel fatto che Alfano e Calderoli stiano tuttora al loro posto), ci sono alcuni dirompenti provvedimenti che avanzano silenziosi e imperterriti, incuranti del pantano politico. Di cosa stiamo parlando? Semplice, dell’unica ricetta, a parte l’austerità, di cui le classi dirigenti lombarda, italiana ed europea sembrano disporre in questi tempi di crisi, cioè precarietà, precarietà e ancora precarietà.
E nulla sembra poter fermare questo mantra bipartisan, né il fatto che i lunghi anni di applicazione di questa ricetta, in Italia e in Europa, abbiano dimostrato la sua totale inefficacia rispetto agli obiettivi dichiarati (occupazione, competitività, ripresa), né le periodiche grida di allarme, ipocritamente altrettanto bipartisan, di fronte alla pubblicazione di dati sempre più allarmanti, come quelli recentissimi dell’Ocse, che ci dicono che il 53% dei giovani sotto i 25 anni che lavorano, lo fanno ormai con un contratto precario. No, tutto ciò non ha alcuna importanza e il coro continua a ripetere: più flessibilità (del lavoratore, si intende), meno diritti, meno salario.
Ma, a questo punto, vediamo cosa succede concretamente in questa estate. In realtà, stiamo parlando di due discussioni e due percorsi diversi, ma talmente intrecciati tra di loro che finiscono per alimentarsi a vicenda: il cosiddetto decreto lavoro del Governo Letta-Alfano (Decreto Legge n. 76 del 28 giugno 2013) e la discussione sui contratti flessibili in vista di Expo 2015. Ambedue, a un solo anno di distanza dalla riforma Fornero, ri-affrontano il tema dei contratti di lavoro a termine e ambedue spingono nella medesima direzione, cioè verso l’allargamento della sfera dei contratti precari, a discapito di quella del contratto a tempo indeterminato.
Insomma, non stiamo parlando di un tema qualsiasi, ma del tema centrale e strategico in materia di mercato del lavoro, di diritti del e nel lavoro e di livelli e sicurezza della retribuzione. Inoltre, va sempre ricordato che il nostro ordinamento continua a definire il “contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato” come forma tipica, considerando dunque quella a tempo determinato come atipica. Ecco perché, dal pacchetto Treu in poi, cioè dal lontano 1997, tutta la partita si è sempre giocata sul questo terreno.
Ma andiamo con ordine.
Il Decreto Legge n. 76/2013
Come ogni decreto legge, anche il n. 76 necessita di essere convertito in legge. E ciò deve avvenire entro il 27 agosto, con l’approvazione da parte di ambedue i rami del Parlamento. Vale a dire, tutta la discussione avverrà tra fine luglio e fine agosto, come in tutti i cult della serie “come smantellare i diritti dei lavoratori”…
A proposito di questo decreto si era parlato sui media anzitutto per l’aspetto degli incentivi, ma molto poco per quello dei contratti a tempo determinato. Anche la lettera aperta al Segretario Pd Epifani da parte del Prof. Piergiovanni Alleva era stata sostanzialmente ignorata dai media, sebbene il giuslavorista usasse toni particolarmente forti e allarmanti, definendo il decreto lavoro il “più micidiale attacco mai portato ai diritti dei lavoratori” e accusando il Governo Letta di “ipocrisia”.
In estrema sintesi e senza perderci in troppi tecnicismi, il nodo della questione consiste nella questione della “acausalità”, della durata dei contratti e degli intervalli tra un contratto e l’altro. Cioè, siccome per il nostro ordinamento il contratto a tempo determinato è appunto atipico, la legge (Dlgs n. 368 del 6 settembre 2001 e successive modificazioni) prevede che il ricorso a questo debba essere motivato da cause “di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro”. Ovviamente, nella realtà di tutti i giorni queste cause vengono spesso aggirate e negli anni si sono stratificate delle eccezioni normative a queste cause. Per esempio, l’attuale regime (così come modificato dalla Riforma Fornero del 2012) prevede che in caso di “primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi” possa essere derogato al principio della causalità. Inoltre, la norma attuale prevede che ci debba essere un intervallo, una pausa, tra la fine di un contratto a termine e la riassunzione dello stesso lavoratore con contratto a termine da parte dello stesso datore di lavoro: 60 giorni in caso di contratti da 6 mesi e 90 in caso di contratti di durato superiore (termini però derogabili in alcune situazioni specifiche).
Ebbene, il DL n. 76/2013 interviene anzitutto sulla durata dei contratti “acausali”, mantenendo ferma in linea di principio la durata dei 12 mesi, ma prevedendo poi un micidiale meccanismo di deroga, praticamente senza confini e affidato alla contrattazione tra le parti sociali, persino a livello aziendale! Per capirci, di fatto viene esteso anche a questo campo la “contrattazione di prossimità”, cioè quel famigerato meccanismo previsto dall’art. 8 del DL 138/2011, voluto e imposto a suo tempo dall’allora Ministro Sacconi, d’accordo con la Cisl di Bonanni. E immaginatevi che cosa potrà succedere nella realtà reale, in un confronto a livello aziendale tra Rsu (o Rsa) e padrone, in piena crisi…. Provate a indovinare chi avrà la meglio nel 90% dei casi…
Il DL 76 interviene poi sugli intervalli tra un contratto e l’altro, riducendoli a 10 giorni nel caso di contratto da 6 mesi e a 20 giorni negli altri casi. Tuttavia, anche questi limiti sono liberamente derogabili da accordi tra le parti, compresi quelli aziendali. Cioè, la pause potrebbero anche essere azzerate.
Expo 2015
A guardare bene, in questo caso siamo di fronte a un vero e proprio paradosso. La richiesta di avere deroghe e “più flessibilità” in materia di contratti di lavoro era partita da Milano, dov’è localizzato l’evento, ed era stata motivata con la temporaneità della nuova occupazione generata dall’evento. Tuttavia, la discussione al riguarda si è svolta e si svolgerà a Roma…
Inizialmente il Presidente di Confindustria e il Pdl, attraverso il solito Sacconi, ora Presidente della Commissione Lavoro del Senato, volevano addirittura inserire tali richieste nel DL 76, mediante alcuni emendamenti che avrebbero accentuato ulteriormente gli aspetti che abbiamo sopra esposto (reiterazione di contratti “acausali” per 36 mesi, apprendistato corto ecc.), rendendo così le “eccezioni” milanesi immediatamente generali.
Questo era però un po’ troppo anche per il Pd delle larghe intese e per una Cgil che a suo tempo aveva ufficialmente osteggiato la logica dell’articolo 8 di Sacconi, mentre ora di fatto l’ha accettata nelle ipotesi contenute nel DL 76. E poi, anche la Cisl aveva brontolato.
Insomma, alla fine non ci saranno emendamenti targati Expo al DL 76, ma in cambio è stato avviato un tavolo nazionale specifico tra le parti. La road map è questa: appuntamenti intermedi con il Ministro il 30 luglio e il 29 agosto, chiusura del tavolo entro il 15 settembre. Se ci sarà un accordo tra le parti bene, altrimenti interverrà il Governo.
Nessuno ha la sfera di cristallo e non sappiamo ovviamente come vada finire questo tavolo, ma è evidente che la conclusione non potrà essere migliorativa rispetto al DL 76 e che si tratterà soltanto di capire di quanto sarà peggiorativa e, soprattutto, quale sarà l’estensione geografica e temporale delle ulteriori “deroghe”.
In conclusione, in armonia con le indicazioni della Bce e con gli interessi del padronato nostrano, si sta realizzando un ulteriore e pesantissimo assalto al contratto a tempo indeterminato. E la questione non è astratta o ideologica, ma estremamente concreta e pratica. Infatti, non si capisce proprio che beneficio possa esserci per l’occupazione, quando si allargano talmente tanto i confini del contratto a tempo determinato, da renderlo utilizzabile liberamente anche in casi di esigenze produttive continuative. In altre parole, l’impresa assumerà sempre il medesimo numero di lavoratori (nella misura in cui assume, ovviamente), ma lo farà sempre di più con contratti a termine, invece che con contratti a tempo indeterminato.
Insomma, rendendo normale e tipico il contratto precario, non si incide sui livelli occupazionali, ma si danneggia il lavoratore e la lavoratrice, favorendo esclusivamente la parte padronale. Infatti, quando vieni strutturalmente licenziato/riassunto ogni X mesi, tutti i tuoi diritti e tutele previsti dalla normativa vigente (Statuto Lavoratori, art. 18, sicurezza sul lavoro, diritto di sciopero o, più banalmente, la possibilità di protestare quando non ti pagano tutte le ore lavorate…) non sono più esigibili. Cioè, tu puoi ovviamente esigerli, ma lui può non riassumerti….