Giulio Di Meo fa il fotografo per raccontare il mondo da una prospettiva: quella delle persone invisibili, delle situazioni di cui non si parla; perché, come dice lui “una signora che lavora in una favela di Rio con i bimbi che giocano sereni non fa notizia”. Per far questo gira il mondo, pubblica libri-campagna e non accetta parecchi compromessi…
Giulio qual è il tuo punto di vista sulla realtà?
Credo che la fotografia sia un valido strumento per raccontare quello che succede nella nostra società, in modo semplice e comprensibile per tutti.
A me sembra che spesso però il mondo dell’informazione si ostini a raccontarne solo una parte, quella più nera e violenta, convinti forse che il dolore altrui vende bene. Di conseguenza, per molti fotografi, diventa quasi un obbligo raccontare orrori e disastri. Raccontarli nel modo più “crudo” sembra dare maggiori opportunità nella vendita ai media e anche qualche speranza in più di vincere un bel premio internazionale, che dà visibilità e prestigio. Più volte, quando dico queste cose, mi viene detto: “fotografiamo gli orrori, perché questo è il nostro mondo”. È vero, ma questa è una parte del nostro mondo e il ruolo del fotoreporter non è quello di raccontarne solo una parte. Ma, è anche vero, che se non si “urla” e non si mostra il lato peggiore, la gente non sembra prestare molta attenzione.
Fare il fotogiornalista con coerenza, cosa vuol dire per te?
Molto semplicemente, per me il fotogiornalista è colui che cerca di raccontare delle storie, che cerca di approfondirle e di avvicinare gli altri a nuove realtà e problematiche attraverso l‘uso di racconti fatti per immagini. Farlo con coerenza significa farlo rispettando le storie e le persone che si incontrano, evitando di alterare o forzare la realtà che si documenta e tenendo ben presente che i nostri lavori non rappresentano la verità assoluta, ma sono punti di vista, interpretazioni della realtà attraverso gli occhi del fotografo. Il fotografo è colui che include, ma soprattutto è colui che esclude; troppo spesso noi stessi ce ne dimentichiamo.
Il tuo ultimo lavoro “Pig Iron” è un libro campagna che denuncia le malefatte della Vale; tu sei stato laggiù varie volte puoi raccontare un po’ la storia?
Pig Iron è una pubblicazione fotografica sulle gravi ingiustizie sociali e ambientali commesse dalla multinazionale Vale negli stati brasiliani del Pará e del Maranhão, tra i più poveri del Paese. Nata come piccola impresa mineraria nel 1911, oggi è un colosso mondiale con un fatturato di 59 miliardi di dollari. Possiede miniere in Australia, Mozambico, Canada e Indonesia, industrie metallurgiche in Nord America ed Europa. Caposaldo della sua attività produttiva rimane, però, l’estrazione di ferro in Brasile, secondo produttore al mondo di questo minerale. Per trasportare il ferro dalle miniere del Parà al porto di São Luis nel Maranhão, Vale ha costruito una ferrovia di quasi 1000 km, lungo la quale ogni anno vengono trasportate più di 100 milioni di tonnellate di ferro destinate all’esportazione, una media di 300.000 tonnellate al giorno. Si tratta di circa 10 milioni di dollari che tutti i giorni vengono fatti annusare ai poveri senza che un centesimo finisca nelle loro tasche. Niente ospedali, niente scuole, niente miglioramento della qualità della vita. A loro vanno solo danni, sconquasso sociale e ambientale.
Le foto di questo libro raccontano queste storie per non lasciare l’ultima parola ad un’economia di sfruttamento. Questo progetto editoriale è nato non solo per raccontare, attraverso le immagini, il quotidiano di queste persone, ma anche come veicolo attraverso cui realizzare qualcosa di concreto e tangibile per loro. Infatti, parte dei ricavati di questa pubblicazione sarà destintoi ad un progetto teatrale portato avanti dai giovani della rete “Justiça nos Trilhos” di Açailândia, nel nordest del Brasile.
Pig Iron è stato pubblicato a febbraio 2013 e a fine maggio sono già stati donati i primi 2.000 euro al progetto teatrale. Questo risultato è stato possibile grazie al contributo di tanti. In pochi mesi sono state vendute oltre 600 copie attraverso incontri e serate di presentazione in più di venti città italiane (Bologna, Milano, Torino, Roma, Taranto, Parma, Reggio Emilia, Ferrara, Pisa, Pistoia, ecc.) e grazie ad una campagna promossa sulla piattaforma di crowdfunding Produzioni dal Basso.
Pig Iron, infatti, ad eccezione di alcune librerie indipendenti, è distribuito direttamente. Può essere ordinato e acquistato attraverso internet dal sito www.pigiron.it oppure durante una dalle tante serate di presentazione con cui si cerca di far conoscere il libro ed il progetto.
Nonostante i libri fotografici non abbiano un grande mercato e la distribuzione sia indipendente, Pig Iron ha raggiunto un traguardo importante “Un po’ siamo riusciti a dimostrare che un’altra fotografia, più concreta e meno urlata, è possibile!”
La foto come cultura, la foto più in là del fatto: puoi spiegare questa tua idea?
Credo che il fotografo raccontando gli uomini e le loro storie, più che il fotografo che cerca “di far notizia”, produca cultura. Ci fa conoscere storie, problematiche, tradizioni, luoghi e volti vicini e lontani, fa’ questo con un linguaggio semplice e comprensibile da tutti, a qualsiasi longitudine o meridiano. La fotografia mostra i colori, i bianchi e i neri, ma ha il dono di poter catturare le sfumature del nostro tempo e delle nostre vite, può congelarle e renderle visibili agli altri. Da ogni sfumatura possono nascere domande, indignazione, rabbia, presa di coscienza. Vista la profonda crisi che attraversa il mondo dell’informazione e del fotogiornalismo, dobbiamo insistere sul ruolo culturale del fotoreportage, investendo sull’educazione all’immagine e sulla valorizzazione del reportage come strumento di conoscenza e di sensibilizzazione.
Io credo che la crisi sia il terreno per la nascita di nuove pratiche, nuove idee, nuove sensazioni: ti senti d’accordo? E, se sì, perché?
Sono assolutamente d’accordo. È vero che la crisi, il digitale, internet hanno stravolto il mondo dell’informazione e di conseguenza quello della fotografia. Per questo è tempo di agire, più che lamentarsi continuamente. Bisogna approfittare dei nuovi canali e strumenti a disposizione dell’informazione, delle loro potenzialità. Bisogna puntare sempre di più sulla qualità dei lavori, sull’approfondimento, sul crowdfunding.
Giulio Di Meo è anche insegnante e formatore: come si complementano l’azione sul campo e la didattica?
Io sono un fotografo abbastanza atipico. Non lavoro per agenzie, giornali o riviste, non partecipo ai grandi concorsi. Porto avanti i miei progetti personali in modo indipendente; mi finanzio attraverso l’attività didattica. I workshops mi danno l’opportunità di trasmettere a studenti ed allievi le mie idee sulla fotografia, ma sono anche occasione di confronto e crescita che poi si riversano sul lavoro sul campo.
Le foto di quest’articolo sono tutte tratte da Pig Iron.
Le foto e le attività di Giulio di Meo si trovano a: www.giuliodimeo.it oppure http://concretevisioni.