Difficile analizzare degli avvenimenti a caldo, quando la situazione è ancora fluida e le notizie si susseguono veloci. Quello che si può fare, tuttavia, è tracciare una mappa, una panoramica dei vari fatti e delle questioni aperte in quel gran calderone caotico che è la situazione egiziana di queste ultime ore.
Partiamo riprendendo le fila degli accadimenti, con una rapida successione dei fatti.
Domenica 30 giugno è stata una giornata di enorme mobilitazione da parte della popolazione egiziana, come vi abbiamo raccontato. Dopo questa data, che entrerà nella storia come una delle più importanti, tanto da dare il nome anche al Fronte unito dell’opposizione – chiamato appunto “30 giugno” e includente tra gli altri il gruppo Tamarrod, promotore della mobilitazione, musulmani, copti, laici e i seguaci di Muhammad El-Baradei, nominato portavoce – lunedì 1 luglio l’establishment militare lancia un ultimatum ufficiale: entro 48 ore, ossia le 18 di mercoledì 3 luglio, il presidente della Repubblica Araba d’Egitto Muhammad Morsi deve dare un segnale di apertura alle piazze egiziane e all’opposizione che lo contestano, facendosi da parte e trovando soluzioni in nome della riconciliazione nazionale.
Martedì 2 luglio arriva, in serata, il discorso di Morsi, che annuncia con determinazione la sua volontà di restare in carica, aprendo all’opposizione, ma solo lasciando intatta la sua presidenza legittimata da un “processo democratico” passato per le elezioni presidenziali e parlamentari e per un referendum di approvazione della nuova costituzione. Si arriva poi al fatidico giorno, mercoledì 3 luglio. Dopo una serie di indiscrezioni che già dal primo pomeriggio parlavano di destituzione e di arresti domiciliari per Morsi, arriva l’annuncio ufficiale sul canale nazionale.
Il Ministro della Difesa e comandante in capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF) ‘Abd al-Fattah al-Sisi annuncia la rimozione di Morsi dalla presidenza per non aver adempiuto al suo dovere di esaudire le richieste della nazione. Dichiara inoltre temporaneamente sospesa la Costituzione recentemente approvata e illustra una roadmap per il futuro del paese. ‘Adly Mansour (foto in alto), presidente della Corte Costituzionale (in carica da domenica scorsa, dopo esserne stato vicepresidente e dopo aver lavorato come giudice per anni, sia sotto Mubarak che sotto Morsi), è scelto come presidente ad interim. A giorni verrà formato un nuovo governo “inclusivo”, altamente rappresentativo delle diverse correnti, oltre a dei comitati (altrettanto variegati) in grado di elaborare degli emendamenti alla Carta costituzionale sospesa. A seguito di rapide riforme costituzionali, verranno indette nuove libere elezioni sia presidenziali che parlamentari. Mansour ha prestato giuramento il 4 luglio, parlando di unità nazionale, di spirito della “rivoluzione guidata dai giovani” da seguire, di obbedienza all’unico Dio e non a “presidenti tiranni” venerati come semidei.
Così, l’ondata di rivolte cominciata il 25 gennaio 2011, troppo frettolosamente chiamata “primavera” egiziana (e mai realmente terminata), vive oggi una “fase due”. Il regime figlio (solo cronologicamente) di quell’esperienza è fallito e caduto dopo appena due anni e gli egiziani sono in attesa di vederne nascere un altro, stavolta figlio di quel 30 giugno 2013 che – stando alle parole di Mansour nel suo discorso d’insediamento – avrebbe “corretto” il 25 gennaio. L’ennesima transizione che un Egitto in panne deve vivere.
L’opinione pubblica sembra essere divisa tra chi saluta con favore la mossa dei militari, che avrebbero attuato le volontà di una nazione in piazza (è quello che dice anche il Fronte di Salvezza Nazionale, che ieri ha incontrato le Forze Armate alla presenza del rettore di Al-Azhar e del Patriarca copto), e chi invece grida al “golpe militare” contro una coalizione islamista al potere democraticamente eletta. La verità, probabilmente, sta nel mezzo.
E’ un fatto che Muhammad Morsi è stato il primo presidente legittimato dal voto popolare nella storia dell’Egitto indipendente. Malgrado la non facile gestione delle elezioni, che sono avvenute a scaglioni nell’arco di vari mesi e con procedure farraginose, la consultazione si è svolta sostanzialmente in libertà e senza particolari brogli o turbamenti. Che i Fratelli Musulmani godano di grande consenso nel paese è un dato di fatto. La Società ha una lunga storia nel paese, e dal 1928 ad oggi, con varie vicissitudini, ha costruito un sistema di welfare e di servizi alternativo (approfittando delle disastrose politiche neoliberiste imposte da Banca Mondiale e Fondo Monetario, che Sadat e Mubarak hanno accettato togliendosi il cappello di fronte agli Stati Uniti), che significa anche un enorme bacino di voti. Gli Ikhwan (i “Fratelli” in arabo) hanno acquisito da anni un enorme potere prima nelle associazioni di categoria, negli ordini professionali e nei sindacati, lasciati più liberi dalla repressione nei loro confronti condotta da Nasser in poi (oltre che nella società e nell’economia) e in un secondo momento anche in Parlamento, sotto mentite spoglie, utilizzando candidati indipendenti e altri nomi di partito (aggirando l’interdizione per i partiti di utilizzare riferimenti religiosi). Fino all’exploit che li ha portati a vincere le elezioni e ad ottenere la presidenza della Repubblica.
Allo stato attuale, i Fratelli Musulmani non usciranno certo di scena facilmente, nonostante gli arresti domiciliari di Morsi e del suo entourage, l’arresto della guida suprema (murshid ‘amm) Muhammad Badie e il mandato di cattura nei confronti di tutti i vertici dell’organizzazione fondata da Hassan al-Banna. Anche il neo-presidente Mansour li ha riconosciuti in una dichiarazione come “una parte del paese invitata a contribuire alla ricostruzione della nazione”.
Ma, come dice un cartello comparso a Tahrir, è vero anche che “la democrazia non è solo quella delle urne, ma sono anche le persone scese in piazza”. Se bastassero le elezioni a rendere un paese democratico, la democrazia sarebbe ben diffusa nel mondo. Ma non è così. Morsi è stato sordo alle richieste della popolazione, ha esitato nelle riforme governando finora a vantaggio di una ristretta élite, ha tradito le aspettative di chi ha partecipato alle rivolte, ha portato avanti la repressione contro i manifestanti anziché l’allargamento dei diritti civili e militari. Non si trattava di vera democrazia neanche lì. Le manifestazioni che noi di First Line Press vi abbiamo narrato dal Cairo con i nostri inviati nei mesi scorsi ne sono una dimostrazione.
Altra variabile impossibile da omettere è che tutto ciò è sempre avvenuto sotto l’egida dell’esercito. Che dal 1952 è il vero timoniere, politico ed economico, sulle rive del Nilo (come in Tunisia, per esempio, lo è la polizia). Membri dell’esercito hanno in mano una grande fetta dell’economia egiziana, oltre che i gangli del potere. E’ stato l’esercito che di fatto ha prima deposto Mubarak, poi Morsi. Per quanto ragazzi e militari si abbraccino nelle piazze, per quanto i proclami parlino di un esercito che ha agito in base alla volontà del popolo, le dinamiche sono un po’ più complesse. I timori rispetto alla possibilità di Morsi di dare un nuovo corso all’Egitto erano anche in questo, nella capacità di gestione del rapporto tra la presidenza e il potere militare dello SCAF.
E’ consigliabile, in generale, non farsi prendere da facili entusiasmi. La Costituzione è sospesa, l’esercito è al potere anche palesemente, la libertà di stampa viene ancora una volta messa a repentaglio (vedi l’occupazione della sede egiziana di Al-Jazeera, il network satellitare di un Qatar vicino alla Fratellanza), il procuratore generale dell’era Mubarak ‘Abd al-Magid Mahmoud è stato rimesso al suo posto dopo che Morsi lo aveva destituito su richiesta del movimento del 25 gennaio 2011.
Per il momento davanti alla popolazione egiziana c’è – riprendendo il titolo del sito di Al-Akhbar – l’orlo di un abisso (lo stesso che c’era anche con Morsi). Il cielo è buio sopra il Cairo, nonostante i fuochi d’artificio e gli elicotteri con le bandiere egiziane fatti volare in questi giorni dall’esercito (in un Paese senza petrolio e con la gente in fila dai benzinai: lo segnalano Marina Petrillo e Sarah El-Sirgany su Twitter). Inoltre, ci sembra poco credibile che in tutto ciò non ci sia almeno il beneplacito degli Stati Uniti e delle potenze occidentali, molto interessati all’area (non dimentichaimo che ai confini c’è Israele, con l’Arabia Saudita baluardo degli interessi a stelle e strisce in Medio Oriente).
Staremo a vedere. Intanto la gente è, come sempre, allo stremo. Si rinfocola la “guerra civile” tra sostenitori e oppositori degli Ikhwan, continuano gli scontri (undici morti e 480 feriti nella sola giornata di mercoledì), bisognerà capire anche come si evolverà il rapporto tra copti e musulmani, nelle ultime manifestazioni uniti nella contestazione di Morsi.