Se Recep Tayyip Erdoğan, il primo ministro turco, non avesse usato la forza nei primi giorni di contestazione pacifica contro l’abbattimento degli alberi nel parco di Gezi, ora non saremmo arrivati a questo punto. Se le forze dell’ordine, poi, non avessero utilizzato gas lacrimogeni e asfissianti, adesso non ci sarebbe tutta questa gente per le strade. Se i mass media, infine, non avessero taciuto ignominiosamente i fatti e non ci avessero addormentato ancora con soap opere al posto degli scontri, il popolo turco non avrebbe avuto la forza e il coraggio di fare quello che ha fatto.
Essendo pieno di sé, Erdoğan non si è accorto dei se. Ed è stato un bene. Perché con i se – e con i ma – non si va da nessuna parte.
La “rivoluzione della birra” come, comicamente, ha scritto qualche giornalista italiano… non è la nuova primavera araba. Perché di arabo i turchi hanno ben poco. Quasi niente. Se non quest’alone di mistero intorno a loro che li accomuna davanti all’ignoranza non solo degli italiani, ma degli occidentali in genere. Già, chi sono i turchi? A questa domanda pochi tra gli inviati con cui ho avuto il dispiacere di parlare in questi giorni hanno saputo rispondere; troppo concentrati davanti alla “rivoluzione” in atto per accorgersi che l’obiettivo non dev’essere messo a fuoco solo nel presente (che è già passato) ma posto, almeno, nel grandangolo del passato recente.
Con due colpi di stato negli ultimi cinquant’anni e un clima sempre più teso negli ultimi tempi, non era poi così difficile prevedere che la bomba della protesta sarebbe potuta esplodere. Forse il benessere economico era stato confuso con il benessere sociale. Forse gli accordi con il PKK erano stati obnubilati con una serena pace. Forse quello che è successo il mese scorso a Reyhanli non era proprio una partita a calcetto tra turchi e siriani. E forse l’intellighenzia contava sul fatto che il popolo turco, generalmente narcotizzato e abituato a ubbidire al sovrano di turno, si sarebbe lamentato sì, ma avrebbe tirato avanti un giorno in più; proprio come fa il ciuco con il carro.
E invece no. Si è rotto l’incantesimo del fatalismo. E il popolo turco, come la bella addormentata, si è svegliato. Anche perché chi vuole realizzare un sogno deve necessariamente svegliarsi. Ma quale sogno? Questa è una bella domanda perché nel momento di festa, ora, per questo che sembra un momento di cambiamento, io ancora non vedo soluzioni per un immediato futuro. Continua il braccio di ferro tra Erdogan e i suoi antagonisti, che spuntano dalla terra ogni giorno di più come funghi dopo un acquazzone. Ed è incredibile come questa protesta stia unendo i borghesi ai proletari, destra e (quel che rimane) sinistra, laici e religiosi. Non vi sorprenda sapere che, in questi giorni, ho visto partecipare donne velate alle manifestazioni di Taksim.
Ma se si capisce per cosa protestano, non si capisce che cosa vogliono. E un sogno per diventare realtà non necessita solo d’azione, ma di un pensiero.
Che cosa vuole il popolo turco? Cos’è tutto questo casino, questa caciara, questo rumore? Fino all’altro giorno, zitta zitta, la metà mugugnava a mezza bocca sui risultati dell’ultimo referendum. E ora? Che cosa ha permesso il miracolo di questa protesta? Mentre m’interrogo, il presidente del consiglio si è chiuso in silenzi eloquenti e, in generale, preferisce far parlare i suoi portavoce. Ogni volta che appare nei media, d’altronde, la borsa turca sprofonda verso il baratro del suo capitalismo à la page.
Il popolo ha ignorato le istruzioni per l’uso indicate dal governo: non partecipare alle manifestazioni per rispettare l’ordine pubblico. E fidatevi: è raro che il popolo turco non le rispetti. Se le grandi multinazionali hanno deciso di investire in Turchia, almeno fino a una settimana fa, l’hanno fatto anche grazie alla fedeltà che il turco ha verso il suo superiore. Quasi una devozione. Una cosa stupida vista con gli occhi di un italiano, lo so, ma qua chi è al vertice della società è rispettato; non si pensa che sia lì perché qualcuno ce l’ha messo – anche se a volte è vero.
È bello pensare che tutto questo sia nato per rispettare la vita di un albero. L’albero è un simbolo ed è bello sapere che ci siamo battuti e ci stiamo battendo per la natura. Anche se, a dire il vero, “qualcuno” ha creduto (crede ancora?) che ci siamo mossi SOLO per proteggere due alberi. Non è così. Ci siamo mossi ANCHE per proteggerli. E nel farlo abbiamo protetto noi stessi.
A Taksim, da qualche giorno, è stata creata una libreria open-air. Se loro sradicano alberi nel presente, noi gli leggiamo le pagine per un futuro migliore.
Forse, a questo punto, qualcuno si chiederà chi ha scritto questa storia. La risposta è: un nessuno. Troppi, al giorno d’oggi, pensano d’essere qualcuno. Diciamo che sono uno scrittore. Uno di quelli che difficilmente riuscirete a vedere nelle librerie; la colpa (se c’è) non è mia.
Io scrivo, sono un testimone. Per il perché mi abbandono alle parole di Alessandro Lesa:
“La scrittura è un antidoto.
Ma gli antidoti presumono un veleno.
E il veleno, una possibile morte.
Scrivo, quindi, per essere immortale.”
Luca Tincalla