Una delle argomentazioni più utilizzate dai maggiori mezzi di informazione occidentali nell’interpretazione dell’origine delle proteste di piazza in Turchia è quello di una deriva islamista ed autoritaria del governo di Recep Tayyip Erdogan.
In questo modo, “i mass media„ concentrano tutta la loro attenzione sull’alternanza islamismo-laicismo ed autoritarismo-democrazia, cosa che conduce ad un’analisi semplicistica e parziale della vera situazione nella quale si trova questo paese euroasiatico attualmente.
Ma per potere analizzare a fondo la recente sommossa popolare di città come Istanbul e Ankara, occorrerebbe allargare la nostra prospettiva ed esaminare al microscopio le politiche socioeconomiche che i poteri esecutivi vanno sviluppando da vari anni.
Il governo di Erdogan, del quale fa parte il Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP), arriva al potere nel 2002 in un contesto di crisi economica (crisi finanziaria del 2001), quando, con il fondo monetario internazionale (FMI), viene deciso un programma di misure a tendenza chiaramente neo-liberale, che include la privatizzazione del settore pubblico, riforme del lavoro e radicali riduzioni delle spese sociali.
Un anno dopo il suo insediamento, nel 2003, parte la privatizzazione dell’impresa pubblica di telecomunicazioni Turk Telekom [1]. L’anno successivo, nel 2004, vengono messe in vendite aziende produttrici di liquori, acciaierie e compagnie aeree [2].
Da qui prende il via un processo che non può essere invertito: nel 2007, l’azienda di tabacco pubblica turca, Tekel [3], viene privatizzata. Nel 2008, è il turno della rete di fornitura elettrica, con la vendita di due società di distribuzione ad Ankara e Sakarya-Kocaeli [4]. Inoltre, nello stesso anno, viene annunciata la vendita della banca pubblica Halkbank e la privatizzazione del 15% delle azioni di Turk Telekom.
Nel 2009, il governo approva una legislazione tesa a consegnare l’acqua di fiumi, laghi e stagni a compagnie private. Il che significa che le risorse idriche possono essere assegnate a società che in precedenza si limitavano a controllare soltanto i servizi di distribuzione [5]. Allora, la confederazione dei sindacati contadini turchi, Çiftçi-Sen, insieme a oltre 100 altre forze d’opposizione sociale che difendono il riconoscimento del diritto all’acqua, creano una piattaforma chiamata “no alla commercializzazione dell’acqua„ e manifestano in massa il 15 marzo 2009 ad Istanbul, nel quadro del Forum mondiale dell’acqua [6].
Nel 2011, il governo Erdogan entra in trattative per la privatizzazione [7] di 2.000 chilometri tra autostrade e ponti nel paese. I poteri esecutivi turchi tentano così di cedere al capitale privato qualcosa come nove strade a pedaggio e due ponti sul Bosforo, vie di comunicazione molto importanti nella zona di Istanbul.
Attraverso la cosiddetta “amministrazione delle privatizzazioni” (per l’acronimo turco OIB), Erdogan cerca di portare avanti diverse privatizzazioni nel paese, come quelle delle industrie tessile, mineraria, petrolifera, alimentare, i trasporti marittimi, per dirne alcune [8].
Nel mese di febbraio di quello stesso anno, 10.000 persone hanno dimostrato nel centro di Ankara contro il governo sulla riforma del lavoro, che include la riduzione del salario minimo per i giovani, la possibilità di trasferimento dei funzionari e l’assunzione di lavoratori senza protezione sociale [9].
La maggioranza delle persone presenti riprende in coro slogan come “siamo ad Ankara, non al Cairo„, “Tayyip, tocca a te„ e “Tayyip, ti auguriamo la stessa fine allegra di Moubarak„.
Le direttive neo-liberiste applicate in questi ultimi anni anni hanno generato un aumento delle diseguaglianze sociali nel paese. Secondo la rivista Forbes, la città di Istanbul, centro finanziario della Turchia, contava 35 multimilionari a marzo 2008 (contro 25 nel 2007), piazzandosi al 4° posto nel mondo. Una relazione sugli imprenditori interessati a fare investimenti in Turchia, redatto dalla banca spagnola Banesto, afferma che “il paese è contrassegnato dall’esistenza di forti disuguaglianze di reddito” [10]. Molti lavoratori dipendenti turchi non guadagnano sopra il salario minimo di circa 570 dollari, ed il reddito pro capite corrisponde quasi alla metà dei redditi medi in Europa.
Questo insieme di fattori possono probabilmente aiutare a spiegare il disagio sociale che ha dato luogo ai conflitti attuali in Turchia, al di là all’approccio liberale che pretende di adottare la stampa occidentale.
Note:
[1]http://elpais.com/diario/2003/11/12/economia/1068591610_850215.html
[2]http://spanish.peopledaily.com.cn/spanish/200402/12/sp20040212_72471.html
[3]http://www.icex.es/icex/cda/controller/pageICEX/0,6558,5518394_5519005_5604470_599968_0_-1,00.html
[6]http://www.eurovia.org/spip.php?article67&lang=fr
[8]http://www.oib.gov.tr/index_eng.htm
[9]http://www.abc.es/agencias/noticia.asp?noticia=677519
[10]http://comercioexterior.banesto.es/es/elija-su-mercado-objetivo/perfiles-de-paises/turquia/economia
Traduzione dal francese di Giuseppina Vecchia