Il workshop organizzato da Global Partnership for the Prevention of Armed Conflict ( Rete Globale per la prevenzione dei conflitti armati, in inglese GPPAC) e dall’Institute for Economics and Peace (Istituto per l’economia e la pace, in inglese IEP) inizia con l’introduzione di Marte Hellema del segretariato globale di GPPAC, che pone alcune domande fondamentali: la crescita economica di un paese può assicurare ai suoi abitanti sviluppo e progresso?
La pace può stimolare il progresso economico?
L’emergere di nuove potenze come il Brasile, l’India e il Sudafrica, può aumentare la sicurezza globale?
Il Global Peace Index (Indice Globale della Pace, GPI), uno studio giunto alla sua settima edizione e appena diffuso dall’IEP, può aiutare a rispondere a queste domande, “misurando” la pace e fornendo indicatori positivi e negativi al riguardo, come illustrato da Steve Killelea, fondatore e presidente dell’IEP. Lo studio stila una classifica di 162 nazioni usando 22 indicatori qualitativi e quantitativi riguardo a tre temi di fondo: il livello di sicurezza in una società, l’ampiezza dei conflitti interni o internazionali e il grado di militarizzazione
I dati forniti da Steve Killelea sono molti e approfonditi. Alcuni non suscitano grandi sorprese (Islanda, Danimarca, Nuova Zelanda e Austria definiti come i paesi più pacifici, Afghanistan, Somalia, Siria e Iraq come quelli in fondo alla classifica, l’instabilità politica e la violenza che continuano a colpire i paesi del Medio Oriente e del Nordafrica), mentre altri possono suscitare interessanti riflessioni: per esempio il calcolo secondo cui il “contenimento della violenza” ha rappresentato nel 2012 il 11% del prodotto lordo globale. Tale valore costituisce quasi il doppio del valore della produzione agricola, quasi cinque volte quello dell’industria del turismo e quasi 13 quello del giro d’affari annuale delle linee aeree. Gli Stati Uniti sono il paese che spende di più in questo campo. Se queste spese si potessero dimezzare, si potrebbe ad esempio ripagare il debito dei paesi in via di sviluppo e raggiungere gli Obiettivi del Millennio fissati dall’ONU riguardo alla lotta alla povertà e alle malattie.
Lo studio indica anche una correlazione tra l’aumento della corruzione e il deterioramento della pace, un tema che verrà ripreso verso la fine del workshop.
La pace, conclude Steve Killelea, è il prerequisito per risolvere le sfide senza precedenti che l’umanità si trova a fronteggiare (il cambiamento climatico, l’aumento della popolazione, la scarsità delle risorse ecc).
Interviene poi Mallika Jospeh, del Regional Centre for Strategic Studies (Centro Regionale per gli studi strategici) di Colombo, Sri Lanka, con una dettagliata esposizione sulla situazione dell’Asia meridionale e in particolare dell’India. Il Bhutan guida la classifica dei paesi pacifici della zona e l’Afghanistan la chiude, con l’India più o meno a metà. Nella classifica generale, occupa la posizione n. 141, collocandosi tra gli ultimi paesi. In generale la percezione della pace è aumentata rispetto a dieci anni fa, ma va ricordato che in India vive un terzo dei poveri del mondo. La discriminazione e la negazione dei diritti umani inoltre rappresentano una violenza diffusa, che non ha bisogno di pallottole e bombe per esercitare le sue nefaste conseguenze.
Si passa poi al Brasile, con il professore di Relazioni Internazionali dell’Università Federale di Sao Paolo Gilberto Marcos Antonio Rodrigues. Rispetto all’Indice Globale della Pace, il Brasile si trova nell’ottantunesima posizione, ossia circa a metà, soprattutto a causa della criminalità interna, percepita come il problema principale anche per via del grande spazio occupato nei mass-media. L’85% della popolazione vive nelle aree urbane e questa enorme concentrazione, unita alla presenza di fasce di estrema povertà intorno a città come Sao Paolo, Rio de Janeiro e Salvador de Bahia è un fattore importante da considerare per spiegare tanta violenza.
La distanza tra ricchi e poveri, pur diminuita, è comunque sempre enorme e produce crimini violenti. Va ricordato inoltre il facile accesso alle armi, anche se la legge brasiliana al riguardo è rigida, grazie al traffico con il vicino Paraguay.
Dopo un lungo isolamento, il Brasile è ora molto attivo nelle relazioni all’interno del Sudamerica e questo nuovo ruolo a volte produce conflitti con gli interessi dei paesi vicini e delle minoranze e problemi ambientali.
Conclude gli interventi Vasu Gounden, direttore dell’African Centre for the Constructive Resolution of Disputes (Centro africano per la risoluzione costruttiva dei conflitti) di Durban, in Sudafrica, con un’esposizione concisa. Senza appoggiarsi a un power point, come nel caso delle precedenti analisi, Gounden ammette con sincerità che il suo paese si trova ancora alle prese con enormi problemi strutturali, così gravi che ci vorranno varie generazioni per risolverli. In sintesi, le disuguaglianze sociali e l’abisso tra ricchi e poveri sono ancora enormi, tanto che si può parlare di due nazioni che vivono in una. Se si vuole parlare di pace, è necessario colmare questo abisso.
Il Sudafrica inoltre non controlla né i prezzi né i conflitti armati come quelli in Libia e in Siria e questa mancanza di controllo ha un grande impatto sulla sua economia. Come il resto dell’Africa, è ricchissimo di risorse, ma la corruzione (non solo locale) e le concessioni alle multinazionali fanno sì che tale ricchezza non migliori le condizioni della gente.
Alla fine del workshop la domanda iniziale rimane aperta, ma alcuni punti fermi sono chiari: le politiche che puntano all’uguaglianza sociale ed economica e a una giusta distribuzione delle risorse costituiscono un sicuro contributo alla pace. E la crescita economica dev’essere per tutti.