Come funzionano in Siria gli esperimenti di Mussalaha, la riconciliazione nazionale per la quale è stato nominato un ministro – il parlamentare dell’opposizione Ali Haydar?
Ne abbiamo sperimentato le difficoltà e le speranze in una breve visita a Homs della delegazione internazionale di sostegno alla pace in Siria. Homs, una delle città che l’anno scorso i media occidentali e arabi definivano enfaticamente “martire”, come fecero in Libia con Misurata (i cui combattenti, però, hanno POI deportato tutti i neri della vicina cittadina Tawergha). Prima di arrivarci passiamo, uscendo da Damasco, da Harasta e Duma, aree calde; sentiamo degli spari e ci diranno poi che l’auto della scorta (con vetri antiproiettile) è stata presa di mira, in un punto dove vediamo varie automobili – non blindate – danneggiate a bordo strada.
I quartieri che attraversiamo non hanno segni di distruzione, semmai di costruzioni lasciate in sospeso, interrotte dall’emergenza. Ci aspettano padre Michel Naaman, prete greco-cattolico (“sono rifugiato anche io, da Khalidiya a Zeidal”), molto impegnato nella riconciliazione insieme allo sheikh Naimi, la cui tribù – 4 milioni di persone – è divisa fra il sostegno al governo e quello all’opposizione: molto utile per negoziare scambi di prigionieri e restituzione di rapiti. Il lavoro della Mussalaha consiste nel convincere i”ribelli” a deporre le armi e il governo a rimuovere posti di blocco e rispettare chi smette di fare la guerra. Padre Michel è tranquillamente arrabbiato: “La Siria sta sprofondando o forse non c’è già più, uccisa dalle armi, dalle colpe di tutti e dagli interessi di altri, piani di divisione. Adesso ci sono armi ovunque, in tanti entrano con i ribelli o invece con i comitati di difesa popolare”. La Siria che non c’è più è anche una foto di padre Michel insieme a una ragazza truccata all’occidentale e a uno sceicco con la kefia.
Il governatore di Homs collabora, ma insiste sulla non ingerenza: “Lasciate che la Siria risolva da sé i suoi problemi. Ogni siriano ucciso è un martire che ha pagato il prezzo della stabilità della nostra patria. Sono fiducioso, qui a questo tavolo sono rappresentate tutte le fazioni. E spero che alla fine l’esercito siriano e l’opposizione combatteranno insieme contro il nemico esterno, i mercenari estremisti che arrivano da mezzo mondo”. Un membro della delegazione chiede “Quale parte della città è controllata dal regime?” Risposta seccata: “Ogni cittadino di Homs riceve gli stessi servizi dallo stato, l’elettricità, l’acqua e il carburante sovvenzionati. Non ha senso parlare di controllo o non controllo da parte del governo”.
Ad Al Wuar- Homs fra sfollati e propaganda (quella che il mondo accetta)
La mediazione con i “ribelli” si fa ad Al Wuar, considerata una roccaforte degli oppositori. Ha 750.000 abitanti, ora diventati un milione per l’afflusso di sfollati da altri quartieri, fra i quali Khalidiya, ancora molto caldo. Dopo un posto di blocco non c’è traccia di esercito fra i grandi palazzi in spazi aperti. I quattro soldati che ci hanno fatto da scorta da Damasco non entrano. Sono gli accordi. Del resto i “ribelli” lasciano entrare per gli aiuti solo membri locali della Red Crescent (Mezzaluna siriana), schierati con loro; così ci dice un fedele ortodosso impegnato nella Mussalaha.
Nella chiesa di Boutros, fra icone ortodosse e donne musulmane velate fino agli occhi arrivate per l’occasione, si alternano le parole di pace. L’invito dei negoziatori di Mussalaha è:“Pensiamo che la Siria è una, un bene prezioso di tutti. Semmai prepararsi alle elezioni, non c’è bisogno di uccidere e dividere!” Ma il compito è difficile. Ci si avvicina Bassam, si dichiara dentista e membro dell’opposizione armata, nel “gruppo di Allah” o qualcosa del genere. Ma non siete un po’ in imbarazzo per l’appoggio ben poco rivoluzionario che vi danno Qatar, Arabia Saudita, Usa, Turchia? “Non sono nostri amici veramente, ci mandano poche armi”. Non volete il dialogo? “Ci armiamo per difendere i civili” è la classica risposta, dalla Libia in poi.
E si capisce quanto la riconciliazione sia difficile subito dopo, con la visita ai duemila sfollati da altri quartieri di Homs. Il primo centro che li ospita è un ex orfanotrofio sunnita per bambini, il secondo è una ex scuola di diritto (o simili). Sul portone il simbolo della Red Crescent e dell’Alto Commissariato. Bambini urlano tutto il tempo: “Il popolo vuole la caduta del governo” (l’uso dei minori è continuo, non solo nella propaganda, ma anche nelle violenze). Mentre una donna mostra il suo neonato Hanin e molti sfollati del campo fotografano e filmano la “delegazione dell’Onu” (come tale sarà spacciata sui sito pro-opposizione), altri indicano fuori dalla finestra i palazzi circostanti: da lì, dicono, i cecchini tirano sul campo. Un’accusa improbabile, tanto più che nessun foro viene mostrato, né si danno notizie sulle vittime. Come far loro comprendere che con la propaganda giustificano le ingerenze che prolungano la guerra, dove tutti hanno da perdere?
Nei due palazzi le condizioni sono quelle di un centro per sfollati, con stanze ricavate sui piani grazie a tende che separano una famiglia dall’altra. Ma sono puliti e nettamente migliori dei campi in Libano. Questo ci ricorda le parole di un giovane funzionario della Red Crescent, a Damasco: “I donatori dovrebbero aiutare il ritorno dei rifugiati dai paesi vicini, possiamo avere meglio cura di loro qui”. Ma i rifugiati all’esterno sono usati come arma mediatica.
Torniamo nella chiesa di Boutros per l’assemblea fra rappresentanti di Mussalaha e sostenitori degli armati. I quali insistono in modo non verificabile sui cecchini, sul fatto che Assad uccide tutti, che ogni giorno c’è una bomba, che le forze di sicurezza rapiscono, violentano e uccidono, che ci sono novemila bambini morti in Siria, che da Zahra, area alauita e cristiana, continuano a sparare. Non una parola sulle violenze commesse dai gruppi armati, anzi, “Siamo armati per difendere donne e bambini”, contro le forze di sicurezza e gli “shabbiha”, come sono chiamati i comitati anti-opposizione. Insomma, è la propaganda. Tutte le parti in guerra fanno propaganda, ma il mondo dei potenti belligeranti ascolta solo quella che gli conviene. Questa.
I membri locali di Mussalaha sostengono che però i leader dell’opposizione armata accettano di negoziare con il governo la deposizione delle armi.
“E’ sbagliato prendere Al Wuar come unico scorcio di Homs, che ha milioni di abitanti” ci dirà poi un funzionario di un’organizzazione che deve restare imparziale e non può esporsi. Come non ha potuto recarsi a Baba Armo per ragioni di sicurezza, la delegazione non ha potuto andare a Zahra, altrimenti avremmo sentito molte accuse, di assedi e atrocità, a carico dell’opposizione. Da Zahra gli abitanti non sono mai andati via, malgrado ogni tanto arrivino i razzi dell’opposizione; è la zona cristiana e alauita per tradizione e l’opposizione non è mai riuscita ad entrarci. Lì si trovano anche i rifugiati di al-Hamidiya, quartiere cristiano in pieno centro storico, sfollato all’arrivo di gruppi armati.
Gli opposti: Marza e “Tora Bora”, Sweda e Jaramana
Fuori Homs, un po’ paese un po’ in periferia, ecco Mazr’a, abitata soprattutto da sciiti. Ciuffi di rose e pergolati di viti al di là dei muretti di pietra che proteggono i cortili. Le zone in pace, senza scoppi né tensione, fanno uno strano effetto in questo paese in guerra, ma sono ancora numerose in Siria. A Mazr’a ci sono stati attacchi dall’esterno circa quindici giorni fa, ma adesso è tutto calmo. Molte donne con abiti e foulard colorati, bambini con la bandiera siriana e di Hezbollah e appesi qui e là i ritratti del presidente. Ripartiamo dopo i dolci e il tè, negozianti e muratori salutano lungo le stradine. Come se fossimo davvero portatori di pace.
Molte aree vivono tuttora in pace. Come Maalula – l’antica cittadina dove si parla ancora l’aramaico e dove non si sono mai fatti la guerra. O come Sweda, capitale dei drusi, area di dolci colline verdi, ulivi e aranci. Là gli unici colpi che abbiamo sentito erano di un martello di falegname e di qualche tuono. Ma sulla strada da Damasco l’autista ci indica a destra quella che chiama la “Tora Bora della Siria”: montagne che avrebbero basi di combattenti, il confine giordano è vicino.
A Sweda i leader drusi sottolineano il rifiuto di un cammino settario e religioso frutto di un complotto. Jumana, giovane giornalista, conferma che le comunità locali vivono intelligentemente in pace, ma non riesce a spiegare perché questo non succeda altrove.
Nella Old City di Damasco, in un bellissimo antico centro usato come luogo per incontri pubblici, giovani e adulti presentano le loro iniziative per la Mussalaha. Il loro si chiama Forum per l’armonia nazionale: “Non vogliamo che la nostra Damasco diventi un’altra Beirut. Così il nostro slogan – davanti agli inviti di certi imam di prendere le armi contro il governo – è stato “lottare dentro la città è un peccato”. Abbiamo visto qualcuno con le armi a Shakkur Street, ma altre persone li hanno convinti a deporle”. Marwa, una imprenditrice, dal canto suo è riuscita a convincere una sessantina di ragazzi a non fare la guerra. Ci sono dei gruppi che negoziano la liberazione di rapiti o detenuti. Nel chiostro del palazzo, due ragazzi hanno una maglietta con i colori della bandiera siriana.
Sempre nel centro storico di Damasco, fra turbanti musulmani e turbanti ortodossi, il patriarca greco cattolico Gregorius II Laham per l’ennesima volta chiede la pace: “Il popolo della Siria è per la riconciliazione, le armi non sono la via, non bisogna vincere con le armi, si causano solo tragedie e vittime. La chiamata a nome del popolo e delle vittime è la pace. Basta con le armi e la violenza. Andiamo tutti al dialogo. Mandare qualunque arma all’opposizione indica una volontà di fare più vittime, niente altro. Ormai la Siria è una fiera, con le armi si fa denaro, grazie ai rapimenti e ai furti. Si rischia il caos, ma occorre evitarlo. Sappiamo che il governo è pronto per la pace e la riconciliazione. Bisogna convincere chi è restio”.