Nel 2000 l’America Latina era devastata dalle politiche neoliberiste. La precedente caduta del socialismo reale aveva portato a proclamare “la fine della storia” e il definitivo trionfo del capitalismo, che con grande durezza globalizzava il mondo sotto il suo segno. In una sola decade di euforia neoliberista, il continente ha notevolmente ridotto gli indicatori di benessere ed equità sociale. Quindi le popolazioni hanno cominciato a ribellarsi contro queste politiche, e grazie a un progressivo consolidamento delle loro democrazie, hanno potuto manifestare il loro scontento per mezzo del voto.
Fu così che, a partire dall’anno 2000, poco a poco le popolazioni di vari paesi dell’America Latina hanno delegato il potere a governi che non appoggiavano le politiche neoliberiste e che si proponevano di recuperare il ruolo dello Stato nell’economia, cercando una miglior distribuzione del reddito. Le caratteristiche di ogni paese hanno fatto sì che questi cambiamenti nella politica assumessero le proprie sfumature: in alcuni casi si parlò di riforme, in altri di rivoluzione, in altri di progressismo. Si potrebbe anche parlare di populismi, o di socialdemocrazia, o di politiche neokeynesiane; magari ci fu un po’ di tutto, ma quel che è certo è che venne recuperato il ruolo dello Stato nell’economia, e questo è stato fondamentale. Nonostante ciò, dobbiamo dirlo, anche nei casi di riforme più profonde non si è riusciti a modificare sostanzialmente la struttura distributiva del capitalismo. Solo in alcuni casi si è tentato di compensare le ingiustizie del mercato aumentando la spesa pubblica in funzione della società, e in altri si è anche cercato di potenziare l’industria nazionale. Tutto questo processo, sebbene abbia significato un grande avanzamento rispetto alla situazione precedente, sta ora giungendo a un limite, a un piano dal quale sarà difficile continuare ad avanzare se non si affrontano trasformazioni strutturali più profonde.
Mentre negli ultimi anni in America Latina accadeva questo, il Giappone continuava la sua lunga stagnazione (dopo lo scoppio della sua bolla immobiliare), mentre la Cina cresceva a ritmi senza precedenti fino a ubicarsi, nel 2008, come seconda potenza economica. Una crescita basata fondamentalmente sulla produzione ed esportazione di prodotti, che hanno portato questo paese a diventare il primo esportatore a livello mondiale e il secondo importatore (per lo più di materie prime, cosa che ha beneficiato l’America Latina). Le eccedenze della bilancia commerciale cinese hanno avuto la loro contropartita nell’indebitamento di buona parte del primo mondo, specialmente gli Stati Uniti, che a loro volta, in un’economia globalizzata, hanno scelto di trasferire le proprie fabbriche in una Cina con mano d’opera a basso costo, per cui buona parte delle esportazioni cinesi sono state in realtà esportazioni delle multinazionali che avevano radicato lì le fabbriche.
In tutto questo processo la ricchezza continuava a concentrarsi. Secondo l’ultimo studio dell’ONU-WIDER, il 2% delle persone più ricche del mondo possiede più della metà della ricchezza globale, mentre il 10% ne possiede l’85%. Questi dati non fanno che illustrare la ben nota meccanica di accumulazione capitalistica. Tuttavia, il fatto che i potenti dei principali paesi si siano ulteriormente arricchiti non ha significato che le loro popolazioni abbiano proporzionalmente migliorato i loro redditi, dato che lo spostamento di numerose multinazionali verso paesi con mano d’opera a basso corso ha provocato la caduta dei redditi da salario. Ma dato che il capitalismo, per poter continuare a funzionare, ha bisogno di mantenere e accrescere i livelli di consumo, ha dovuto compensare la perdita di potere d’acquisto dei salari con il credito al consumo, e quindi i livelli di indebitamento sono aumentati e hanno alimentato bolle che poi sono esplose negli Stati Uniti e in Europa, trascinando il mondo in una delle sue peggiori crisi economiche.
Queste crisi hanno anche evidenziato un’altra contraddizione del sistema, riferita alle democrazie formali, nelle quali i funzionari eletti dalla gente favoriscono il potere economico ai danni delle loro popolazioni. Questo ha portato ad una grave crisi politica in numerosi paesi, con l’emergere di movimenti sociali che mettono in discussione il potere e l’ipocrisia della democrazia formale. Anche se per il momento, e nonostante il disagio sociale, il problema permane senza soluzione e rimangono al potere governi che, di fronte alla crisi economica, priorizzano gli interessi della banca a scapito del benessere della propria gente.
Le radici profonde della crisi mondiale
E’ normale sentir parlare o leggere delle cause di questa crisi mondiale, iniziata alla fine del 2007 con epicentro negli Stati Uniti, che ancora non si sono ripresi, e che ora tiene sulle spine tutta Europa. Si parla molto delle bolle speculative, dell’irresponsabilità dei banchieri e di molti governi, e una delle principali discussioni è se si uscirà dalla crisi attraverso l’ortodossia degli aggiustamenti o attraverso le politiche che promuovono la crescita. Ma raramente si sente mettere in discussione proprio il sistema capitalista. Nel migliore dei casi si dice che la speculazione finanziaria che ha generato la bolla e prodotto la crisi è uno svio o una malformazione del sistema capitalista, benchè, a nostro parere, tale speculazione finanziaria non sia che un sottoprodotto di questo stesso sistema. Perché è proprio la matrice distributiva del capitalismo che porta all’accumulazione della ricchezza nelle mani di pochi, alla conseguente generazione di eccedenze finanziarie che cercano una rendita maggiore di quella del sistema produttivo, alimentando così la speculazione finanziaria, dalla quale deriva l’accumulazione di potere nella Banca. Un potere che negli ultimi decenni è andato disciplinando il potere politico, ottenendo che i governi prendessero decisioni che tendevano esattamente all’accelerazione del processo di concentrazione della ricchezza, in un circolo vizioso che ha accelerato il crollo. Potere che negli ultimi tempi nemmeno si nasconde, e che si fa evidente, se solo osserviamo le risorse destinate dai governi al salvataggio delle banche, o quando vediamo chi sono quelli che realmente prendono le decisioni di fronte alla crisi europea.
Questo capitalismo, che dopo la seconda guerra mondiale sembrava riconsiderare la matrice distributiva, alimentando le politiche keynesiane e lo stato di benessere, a partire dagli anni Ottanta approfittò delle debolezze dei modelli statali per far risorgere la sua vera natura predatrice attraverso il neoliberismo. Come già detto, attraverso il processo di globalizzazione le multinazionali andarono spostando le diverse fasi produttive verso paesi a basso costo di mano d’opera ed elevata flessibilità nel mercato del lavoro. La distribuzione del reddito a favore del guadagno d’impresa e a detrimento dei salari ha aumentato il divario, e il modo che si è trovato per mantenere i livelli di consumo delle popolazioni è stato il credito; questo ha prodotto il crescente indebitamento delle persone, delle imprese e dei governi, e il conseguente arricchimento della Banca.
Questo peggioramento della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi, e l’accrescimento del consumismo irrazionale attraverso il credito usuraio, non hanno fatto altro che alimentare le successive bolle, che esplodendo evidenziavano l’irrealizzabilità del sistema, il quale tornava solamente a dissimularsi, in modo provvisorio, con una bolla più grossa, finchè non è esplosa l’ultima. Continuerà così finchè non si risolverà l’ultima radice del problema, che è la matrice distributiva regressiva, intrinseca al sistema capitalista. Certamente le crisi non si risolveranno con aggiustamenti che impoveriscano maggiormente le popolazioni, ma nemmeno con le ricette keynesiane applicate dagli stati più progressisti, perché saranno del tutto insufficienti a invertire la pendenza della dinamica capitalista, che concentra le risorse ogni volta di più.
Il caso europeo
La causa della crisi europea non sfugge alla logica del capitalismo globalizzato che abbiamo descritto, ma le particolarità di una comunità di vari paesi organizzati in base ai trattati di Maastricht e legati a una moneta comune hanno accentuato alcune delle cause e alcuni degli effetti.
Per i capitali finanziari, l’euro ha significato una sicurezza nel cambio che non aveva mai avuto prima, proteggendo gli investimenti finanziari dal rischio di svalutazioni in altri paesi del mondo, o nella stessa Europa prima della moneta comune. Questo ha fatto sì che in poco tempo la cosiddetta Integrazione Finanziaria si moltiplicasse, e i capitali fluissero dai paesi che generavano risparmi verso quelli che chiedevano credito. Buona parte dei capitali prestati sono usciti dalle banche tedesche e francesi, indebitando i greci, i portoghesi, gli spagnoli e gli italiani. Le imprese dei paesi con maggior produttività, come Germania e Francia, aumentavano le esportazioni con i paesi dell’eurozona, mentre le loro banche finanziavano i loro compratori: un falso “circolo virtuoso” di crescita ed espansione economica che ha generato un’illusione di prosperità nella quale si è cementata la bolla immobiliare, finchè l’impossibilità di affrontare i pagamenti dei debiti ha fatto esplodere la bolla. Un meccanismo che, sebbene sia proprio del capitalismo globalizzato, si è potenziato in Europa per le asimmetrie tra i soci, che non avevano possibilità di svalutare la propria moneta per regolare il commercio estero.
Le stesse ragioni che hanno favorito la crisi sono quelle che ne rendono difficile l’uscita, portando a una situazione di stallo che minaccia di estendersi nel tempo. I paesi più indebitati e con maggiori difficoltà non hanno la possibilità di gestire la propria politica monetaria; non possono svalutare per diventare competitivi nella loro bilancia commerciale, né possono espandere la propria spesa per dinamizzare l’economia. Al contrario, stanno portando avanti una politica di aggiustamenti brutali e recessivi, per cui la relazione tra i loro debiti e il PIL aumenta invece di diminuire, cadendo nel cosiddetto Paradosso dell’Austerità, in cui il risparmio per cancellare un debito produce una recessione che fa diminuire le entrate fiscali e con esse la capacità di risparmio. Il potere finanziario non è solo stato il principale responsabile di questa crisi, ma continua a mantenere il potere reale nella gestione dell’economia europea, e questo si traduce nelle politiche con le quali la Troika (BCE, FMI, UE) pretende di rispondere alla crisi. Si è data priorità al salvataggio delle banche, destinando centinaia di migliaia di milioni di euro per preservare il sistema finanziario dal collasso, sia prestando alle proprie banche, sia prestando agli stati perché assistessero le banche, sia prestando agli stati perché non finissero in bancarotta bruciando le banche.
Naturalmente chi gestisce le finanze europee sa che con questi aggiustamenti recessivi la cosa più probabile è che in ogni caso vari paesi finiscano in bancarotta, ma nel frattempo guadagnano tempo affinchè le loro banche si ricompongano e si rafforzino. Hanno fatto lo stesso con la crisi del debito estero in America Latina nella decade degli anni Ottanta: hanno rifinanziato debiti che erano impagabili, imponendo aggiustamenti che hanno condannato le popolazioni alla disoccupazione e alla miseria, privilegiando la stabilità delle proprie banche mentre i debiti continuavano a crescere.
Quando parliamo delle trasformazioni di fondo che si devono effettuare nel sistema economico per metterlo al servizio della gente, parliamo anche della pressione che questa gente deve esercitare sui suoi governanti affinchè realizzino questi cambiamenti. Me nel caso dell’Europa bisognerebbe parlare di due istanze differenti, poiché vi sono cambiamenti che hanno a che vedere con la politica economica comunitaria, fondamentalmente da parte della BCE, e altri che fanno riferimento alle politiche di ogni paese. Cosicchè le popolazioni dovrebbero far pressione simultaneamente per il cambiamento delle politiche comunitarie e per il cambiamento delle politiche nazionali, che a loro volta dovrebbero variare a seconda che si riuscisse o meno a cambiare la politica comunitaria. In nessun modo si può continuare con le politiche di aggiustamento che la popolazione sostiene. I licenziamenti, i tagli salariali e il congelamento dei salari e dei pensionamenti, e altre misure di austerità si sommano alla già gravissima recessione provocata dalla crisi del settore privato, e all’abbandono di migliaia di persone che stanno perdendo le loro case nelle mani delle banche creditrici.
La crisi devono pagarla le banche, non si deve pagare il debito con la fame dei popoli. O la BCE dà una svolta alla propria politica verso un’espansione monetaria che dinamizzi l’economia, e si fa carico della ristrutturazione dei debiti dei paesi, o i paesi interessati dovrebbero ripudiare il proprio debito, lasciare l’euro e dinamizzare la propria economia con politiche monetarie autonome. In ognuno dei due casi, la dinamizzazione dell’economia dovrebbe darsi sotto altri paradigmi di crescita affinchè le crisi non si ripetano.
I limiti del produttivismo e del consumismo
Una delle contraddizioni in cui solitamente si cade nel tentare modelli alternativi al neoliberismo è quella di restare intrappolati nella logica materialista del capitalismo stesso, credendo che una migliore distribuzione del reddito si ottenga solo sovvenzionando il consumo dei più poveri, cosa che a sua volta moltiplicherà i posti di lavoro. Sebbene questo nel breve periodo funzioni, il fatto di non trasformare la tendenza all’accumulazione intrinseca al mercato capitalista fa sì che le risorse economiche riversate sulla popolazione siano canalizzate nel consumo di beni e servizi monopolizzati dalla stessa struttura produttiva che nelle ultime decadi è andata concentrando i redditi, ha impoverito i salariati ed emarginato milioni di persone dal mercato lavorativo.
Per chiarire con un esempio: se volessimo irrigare un terreno seminato con l’obiettivo che ogni metro quadrato abbia lo stesso livello di umidità, non basterà che spargiamo acqua su tutta la superficie, perché se il terreno è su un piano inclinato l’acqua finirà per accumularsi nelle zone più basse. Allo stesso modo, quando uno Stato utilizza le proprie risorse per aumentare il consumo dei più svantaggiati, ma non inverte la pendenza della matrice distributiva del mercato capitalista, le risorse tornano ogni volta più rapidamente a chi concentra la ricchezza, e lo Stato ha bisogno ogni volta di più risorse per continuare a “irrigare”, finchè la pressione impositiva diventa impossibile da sostenere, o il processo inflazionario sterilizza gli sforzi ridistributivi.
Si potrebbe pensare che questo meccanismo in ogni caso produca crescita generale, e tutti ne escano avvantaggiati, cioè i più ricchi si arricchiscono di più, ma anche i più poveri migliorano la propria situazione. Può essere così nel breve termine, ma mano a mano che si raggiungono i limiti di crescita, le maggiori risorse nelle mani di coloro che hanno accumulato di più spingono i prezzi al rialzo, e rapidamente la capacità di acquisto dei salariati retrocede. Questo accade perché la logica capitalista del produttivismo e del consumismo, sommata a una matrice distributiva regressiva, si scontra con gli stessi limiti del sistema.
Molte volte abbiamo ascoltato la parola “sviluppo sostenibile”: questo termine può avere varie interpretazioni. Da quella pubblicazione del Club di Roma, “I limiti della Crescita”, nel 1972, molte cose si sono dette e sono accadute, alcune smentendo, altre confermando i futuribili enunciati a quei tempi. C’è chi parla della possibilità infinita di crescita, altri dicono che bisogna frenare la crescita, c’è chi dice che bisogna decrescere, e c’è anche chi pensa che nel mondo ci sia gente in eccesso.
Ma la sostenibilità non passa soltanto dall’equilibrio ambientale e dall’attenzione alle risorse naturali; la sostenibilità deve anche essere sociale, economica e politica. E’ chiaro che con l’attuale matrice di produzione, di consumo e di distribuzione del reddito sarà impossibile invertire la marginalità di miliardi di persone nel mondo.
Oggi India e Cina stanno diventando i motori dell’economia mondiale. Non si tratta di due paesi qualunque, perché entrambi superano i 2 miliardi e mezzo di abitanti, cioè più di un terzo della popolazione mondiale. Ebbene, perché questi paesi raggiungano nel loro sviluppo il PIL pro capite che oggi detengono l’Europa e gli Stati Uniti, dovrebbero moltiplicare in media 8 volte il loro PIL attuale. Cioè, se l’orizzonte fosse la società consumista del cosiddetto primo mondo, sicuramente ci sarebbero problemi a crescere quanto necessario perché tutti i paesi acconsentano.
Inoltre è dimostrato che quanto più si cresce, sebbene alcuni indici relazionati con la povertà assoluta migliorino, tanto più la breccia nella distribuzione del reddito aumenta. Questo significa che se pretendessimo di crescere con l’attuale matrice distributiva del capitalismo finchè tutta la popolazione mondiale raggiungesse gli standard minimi per una vita degna, la proiezione sarebbe anche maggiore. Per esempio, il PIL pro capite medio nel mondo è di circa 10.600 dollani l’anno (simile alla media del Brasile), circa 30 dollari al giorno. Ma sappiamo che quasi un terzo della popolazione mondiale vive con 2 dollari al giorno o meno. Con l’attuale matrice distributiva bisognerebbe crescere di 15 volte perché i più poveri arrivino al reddito medio attuale, e bisognerebbe crescere di 60 volte perché gli stessi arrivino alla media dei paesi del primo mondo.
Evidentemente avremmo problemi di rifornimento, a meno che non conquistiamo l’universo a breve termine.
Certamente alcuni di quelli che pensano (benchè non lo dicano) che il mondo ha gente in eccesso, scommetteranno su un’autoregolazione maltusiana che decimi la popolazione e quindi si riequilibrino i mercati. Ma nessuno dice queste cose, perché sta male; ciò che tutti dicono è che bisogna crescere in modo sostenibile, senza pregiudicare l’ambiente, e soddisfacendo le necessità di tutta la popolazione. D’accordo, ma come?
Per caso propongono la cessazione della crescita o magari la decrescita? Suppongono che Cina, India e America Latina dovrebbero congelarsi nella situazione attuale, con più di un miliardo di esseri umani sommersi dalla povertà? Naturalmente no, ma quindi come dovremmo fare? Fermiamo il mondo in questo momento, distribuiamo il PIL mondiale in parti uguali e ognuno sopravvive con i 30 dollari al giorno che gli corrispondono? Molti sarebbero d’accordo… e molti preferirebbero qualche altra proposta nella quale non gli tocchi perdere.
Già adesso tale ipotetica ridistribuzione egualitaria e immediata è impraticabile, per non parlare delle difficoltà politiche. Ma ciò che invece dovrebbe essere possibile e imprescindibile è andare correggendo da subito la matrice distributiva, affinchè la futura crescita vada migliorando l’equità, e affinchè non siano necessari tassi irraggiungibili di crescita per migliorare di qualche decimo il reddito degli emarginati.
Insieme a questo bisognerebbe generare una riconversione in molte righe dell’attuale PIL mondiale, soprattutto utilizzando le enormi risorse che oggi si investono in armamenti nella produzione di beni per soddisfare necessità umane. Allo stesso tempo bisognerebbe ricavare poco a poco risorse che oggi vanno verso il consumo di lusso o la speculazione finanziaria per investirle nella produzione di beni e servizi che migliorino la qualità della vita delle popolazioni.
Ciò che stiamo dicendo è che non si tratta di frenare la crescita, ma di darle direzione verso le necessità dei più poveri. Insieme a ciò bisognerà modificare la composizione di questa crescita perché sia razionalmente sostenibile. Per esempio, se si moltiplicasse per 10 la produzione mondiale di servizi per la salute e l’educazione, la popolazione migliorerebbe notevolmente la propria qualità di vita, senza alcun ulteriore impatto ambientale, e senza consumare risorse naturali. Ora… se il mercato dice che bisogna moltiplicare per 10 la produzione di automobili… sicuramente alcune cose cominceranno a collassare. Se sfruttiamo razionalmente le terre fertili, le risorse marittime, e miglioriamo le tecnologie, sicuramente potremo alimentare tutta la popolazione mondiale, contraddicendo le profezie maltusiane del Club di Roma. Ma se il mercato dice che bisogna utilizzare le terre fertili per produrre biocombustibile, affinchè le strade possano riempirsi di auto, sicuramente ci saranno meno alimenti e molto più costosi.
Quello che si suggerisce è una società libertaria, nella quale nessuno subisca pressioni per adattarsi al modello consumista-produttivista come requisito per non restare emarginato, ma dove esista anche la libertà perchè chi preferisce produrre e consumare di più possa farlo nella misura in cui non pregiudichi altri o l’ambiente. Naturalmente perché ciò avvenga bisognerà prima disarticolare poco a poco questo sistema, mettendo in moto una vera reingegneria dell’apparato produttivo. Tutto questo implica una strategia in passi progressivi, tanto lontana dallo sterile deambulare del riformismo quando dall’inconcludente declamazione immediatista.
Passi riformisti o passi rivoluzionari
E’ già passato più di un secolo dalla pubblicazione di “Riforma o Rivoluzione”, dove Rosa Luxemburg discuteva la capitolazione di alcuni socialdemocratici come Eduard Bernstein. Sicuramente tutta l’esperienza accumulata da quell’epoca ha portato molti a riformulare la propria visione sul capitalismo e sul socialismo, la concezione della lotta di classe e la fattibilità nella realizzazione di trasformazioni profonde nella democrazia. Ma dobbiamo dire che oggi più che mai si prefigura la sfida di scoprire come avanzare verso trasformazioni strutturali del sistema economico. Forse quella frase di Rosa Luxemburg: “… la lotta per le riforme sociali è il mezzo, mentre la lotta per la rivoluzione sociale è il fine…”, continua ad avere pieno vigore, indipendentemente da ciò che chiamiamo riforme sociali, e da ciò che chiamiamo rivoluzione nel XXI secolo.
La caduta del socialismo reale non ha solo aperto la strada alla globalizzazione capitalista, ma ha anche intrappolato le società nel labirinto senza uscita dei pragmatismi, dei relativismi e della rassegnazione, dichiarando obsolete le utopie e fuori moda gli ideali. Negli ultimi anni, le nuove generazioni hanno ricominciato a sognare utopie, qualcosa tanto semplice come un mondo in pace, più giusto e con esseri umani felici, ma non è tanto facile coincidere su un cammino per raggiungere questi obiettivi. L’esperienza dimostra che non è possibile imporre ricette presumibilmente scientifiche, né si può forzare affinchè la realtà della gente si adegui alle teorie. Ma l’esperienza dimostra anche che è molto facile perdersi nel labirinto del possibilismo, quando si sceglie il cammino del riformismo, in cui gli illusori avanzamenti provvisori ci riportano al punto di partenza.
Quando si tratta di costruire un cammino di vera trasformazione, siamo in molti a condividere il punto di partenza: non vogliamo un mondo in cui questo para-stato che è il potere finanziario internazionale decide la direzione dell’economia; non vogliamo un sistema economico che arricchisca alcuni ed emargina milioni, mosso dall’avarizia e dal consumismo che stanno depredando il pianeta; non vogliamo dittature autoritarie, né tantomeno democrazie ipocrite guidate da politici complici di questo sistema.
Siamo in molti anche a condividere il mondo cui aspiriamo: un mondo in pace, senza guerre né alcun tipo di violenza, un mondo nel quale l’economia sia al servizio dell’essere umano e non il contrario; un sistema economico che si sviluppi in equilibrio con l’ecosistema, nel quale la ricchezza si distribuisca equamente e dove ogni essere umano abbia reali possibilità di avere una vita degna, senza essere emarginato, né sfruttato e senza alienarsi nella corsa materialista.
Siamo in molti a coincidere in ciò che non vogliamo e in ciò cui aspiriamo, però non è così semplice chiarirsi su quali sono i passi da seguire per andare da un posto all’altro. E’ chiaro che bisognerà necessariamente fare un passo alla volta, non solo per le resistenze che incontreremo, ma anche perché, benchè tutti gli abitanti del pianeta siano d’accordo su ciò che si deve fare, il proposito di smontare un sistema e rimpiazzarlo con un altro implica necessariamente un processo metodico.
Ma per sapere che i passi di questo processo non siano passi falsi che ci introducano nel labirinto del riformismo, bisogna proporsi obiettivi che al realizzarsi funzionino come gli ancoraggi di uno scalatore, partendo dai quali sia molto difficile retrocedere o cadere e che servano da appoggio per il passo successivo. L’idea qui non è quella di stilare un elenco (tutt’altro che completo) di questo tipo di passi, che necessariamente si devono costruire attraverso l’esperienza collettiva. Sembra invece interessante dare qualche esempio che possa servire a differenziare ciò che potremmo chiamare passi rivoluzionari da quelli che potrebbero essere passi riformisti.
Per esempio, in materia di distribuzione dei redditi d’mpresa, nel sistema capitalista la spinta verso l’aumento salariale è generalmente l’obiettivo più frequente della lotta dei lavoratori. Sappiamo tuttavia che qualunque incremento nominale momentaneo non solo risulta sempre insignificante in confronto agli incrementi del guadagno d’impresa, ma può inoltre diluirsi rapidamente a causa degli aumenti dei prezzi. Se invece si lottasse per la partecipazione dei lavoratori negli utili dell’impresa, ogni punto percentuale in più a fronte di questo obiettivo significherebbe un miglioramento irreversibile dei redditi dei lavoratori.
Un altro esempio, in materia di creazione di posti di lavoro: questo oggi dipende da qualcosa di tanto vago come “la decisione dei mercati”. In alcuni casi i governi cercano di attenuare la disoccupazione imponendo tasse per finanziare impieghi pubblici o sussidi; questo non solo favorisce la creazione di burocrazie statali dipendenti dal clientelismo politico, ma trova il proprio limite anche nel consumo delle risorse fiscali o nei processi inflazionari. Se invece lo strumento fiscale fosse utilizzato per fare pressione sulle imprese affinchè destinino una quota crescente dei propri guadagni nel reinvestimento produttivo generatore di posti di lavoro, ogni punto percentuale di risparmio d’impresa destinato alla creazione di posti di lavoro significherebbe anche un avanzamento irreversibile nella dinamica dell’inclusione lavorativa e una proporzionale retrocessione della canalizzazione speculativa delle eccedenze.
Dato che parliamo della speculazione finanziaria, sicuramente uno dei maggiori responsabili dell’attuale crisi, bisognerebbe iniziare a legiferare perché ci siano regole che avanzino lentamente nell’orientamento del risparmio di imprese e persone verso una Banca Statale senza interessi, che promuova lo sviluppo inclusivo. Ogni punto percentuale ottenuto nella canalizzazione di fondi verso la produzione, significherà un avanzamento irreversibile nell’indebolimento della speculazione finanziaria e nel rafforzamento dell’economia produttiva.
Sebbene il nostro tema sia l’economia, non possiamo eludere l’importanza che ha la trasformazione del sistema politico, se si vuole avere il potere per avanzare a fondo con le trasformazioni economiche. In questo senso, l’avanzamento verso una Democrazia Reale, nella quale i cittadini abbiano ogni volta più ingerenza nel prendere decisioni, richiederà anche che si avanzi, passo dopo passo, in conquiste che vadano smontando le mafie dell’attuale politica. In questo senso, ogni progresso vincolato all’implementazione di consultazioni popolari, elezioni dirette, iniziative popolari, revoca di mandati e ogni tipo di partecipazione nelle decisioni, dovrebbe essere un bastione dal quale lavorare per la conquista successiva, finchè il potere sia realmente nelle mani della popolazione.
Si potrebbero dare molti altri esempi al riguardo, ma forse questi sono sufficienti a illustrare quello che potrebbe essere un cammino di lotta verso conquiste concrete, che non siano meri palliativi effimeri, ma veri avanzamenti, che irreversibilmente ci permettano la scalata verso il mondo cui aspiriamo.
Se vogliamo costruire l’edificio del mondo delle nostre utopie, bisognerà farlo mettendo in piedi colonne e travi, mentre passo dopo passo aggiungiamo più piani. Pertanto non basterà che ogni settore lotti isolatamente per le proprie rivendicazioni, ottenendo benefici effimeri; bisognerà pensare che ogni conquista sia il fondamento di una struttura sulla quale si monteranno i progressi successivi.
Traduzione di Matilde Mirabella