Gli anni che ci separano dal 2001 sono stati densi di eventi che hanno modificato completamente lo scenario internazionale, ma il messaggio lanciato dal primo Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre è risuonato in tutta la sua attualità a Tunisi, dove migliaia di giovani hanno mostrato ai movimenti di tutto il mondo come stanno cercando di costruire “un altro mondo possibile”.
Tunisi è stata scelta come sede della dodicesima edizione del Forum Mondiale per due ragioni: innanzitutto per la consapevolezza che alla nascita delle rivoluzioni magrebine ha contribuito anche il lavoro che dal 2006 il Forum ha realizzato in Africa, prima con il Forum Africano a Bamako, poi con quello mondiale a Nairobi e coi forum regionali del Maghreb e del Makresh, che hanno fornito agli attivisti delle realtà democratiche la possibilità d’incontrarsi sotto l’ombrello protettivo del Forum Sociale Mondiale; quindi per il desiderio di lanciare un messaggio di forte sostegno al percorso rivoluzionario in un momento estremamente complicato.
Non c’è dubbio che l’evento appena conclusosi abbia sacrificato una discussione approfondita su alcune urgenze globali, quali ad esempio la crisi finanziaria e climatica, ma la scelta è stata di rilanciare lo spirito militante di un Forum che si propone come incubatrice e partner essenziale dei processi sociali di trasformazione della realtà, andando oltre l’idea originaria di un semplice spazio aperto di confronto. Ed infatti la successiva discussione del Consiglio Internazionale del Forum si è concentrata sulla necessità di aumentare l’efficacia della nostra azione collettiva, fuggendo il rischio di appuntamenti autocelebrativi.
La crisi economica, vero rischio per la rivoluzione.
Uno degli sforzi dei movimenti sociali tunisini è stato quello di contrastare la vulgata, ampiamente diffusa da gran parte dei media europei, secondo la quale la principale questione al centro del dibattito sulla rivoluzione sarebbe il confronto tra uno sbocco democratico e uno stato teocratico.
La vicenda religiosa occupa un ampio spazio nel confronto odierno, ma una sua assolutizzazione rischia di coprire l’emergenza sociale che oggi è il vero problema: dopo la rivoluzione il costo dei prodotti alimentari è aumentato anche del 25%, è cresciuta la disoccupazione, è diminuito il potere d’acquisto dei salari ed è contemporaneamente aumentata l’economia illegale collegata ai traffici transfrontalieri. Le scelte del governo, dominato da Ennahda, il principale partito mussulmano, si caratterizzano per politiche economiche liberiste fondate su accordi con la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale, senza alcun efficace tentativo di ridiscutere l’esorbitante debito estero che attanaglia il paese; i seminari di Attac sulla rinegoziazione del debito erano affollatissimi, a riprova delle consapevolezza della drammaticità della situazione.
L’incontro, ormai evidente in diversi paesi, tra il sistema liberista e le scelte dei partiti riconducibili ai Fratelli Mussulmani non è solo il risultato delle manovre dell’amministrazione americana, finalizzate a rendere compatibili con gli interessi d’oltreoceano le politiche dei nuovi governi arabi. Secondo alcuni dei nostri interlocutori la questione è ben più profonda e riguarda, semplificando al massimo e con il rischio di banalizzare un ragionamento ben più complesso, la scelta dell’Islam di delegare all’obbligo della carità la soluzione delle disuguaglianze sociali.
L’Arabia Saudita ed il Qatar, piuttosto che sostenere il bilancio dello stato tunisino senza avere la garanzia di elevati ritorni economici, preferiscono finanziare le numerose associazioni islamiche impegnate nell’attività sociale e nel reclutamento religioso. Il risultato concreto è che dopo la rivoluzione è senza dubbio aumentata la libertà d’espressione, di stampa e di comunicazione (seppure in presenza di alcuni gravi casi di repressione verso giornalisti accusati di mancanza di rispetto verso l’Islam), ma contemporaneamente sono decisamente peggiorate le condizioni di vita di ampie fasce di popolazione, con il rischio che ne risulti indebolita la prosecuzione del processo rivoluzionario.
Il difficile equilibrio della sinistra politica
La sinistra politica tunisina, riunita nel Fronte Popolare, è attraversata da un vivace dibattito sull’equilibrio da tenere tra la lotta per la difesa della laicità, argomento trasversale e interclassista e le rivendicazioni sociali con precisi riferimenti di classe.
Il dibattito sul ruolo della religione nello stato è ancora aperto a soluzioni fra loro molto differenti. Il Forum è stato anche utilizzato da alcuni gruppi come opportunità per rilanciare, invocando paradossalmente la libertà conquistata durante la rivoluzione, soluzioni da tempo sostenute dai gruppi integralisti e vietate dal regime precedente, quale la possibilità di accedere alle lezioni universitarie con il Burqa. Nonostante tutte le accuse di strumentalità che si possono rivolgere ad una simile operazione, non c’è dubbio che siano riusciti ad imporre tale argomento alla discussione collettiva.
Durante l’incontro con il Consiglio Internazionale il Presidente della Repubblica, Moncef Marzouki, ha assicurato che nella Costituzione sarà garantita la parità tra uomini e donne e che chi volesse proporre la poligamia “dovrà passare sopra il mio corpo”; affermazioni forti, alle quali non è però fino ad ora corrisposto un impegno preciso: la “complementarietà” tra uomo e donna è stata rimossa dalla Costituzione solo dopo un’ampia mobilitazione di piazza e non certo per un’ iniziativa presidenziale.
Durante l’incontro ho chiesto ragione al Presidente delle gravi affermazioni da lui rilasciate qualche giorno prima in Qatar nei confronti dell’opposizione; affermazioni che contenevano toni minacciosi e intimidatori, inaccettabili da parte della massima autorità istituzionale. Moncef Marzouki ha replicato che l’opposizione ha i diritti che gli competono purché agisca nei limiti di legge, in modo nonviolento e senza alcuno spirito di rivincita. Difficile accettare simili giustificazioni, considerato che le manifestazioni poste sotto accusa come eventi sovversivi erano quelle coincidenti con il funerale di Chokri Belaid, il leader dell’opposizione assassinato il 6 febbraio.
L’ottimismo della ragione
Tra gli attivisti tunisini non vi è grande fiducia sulla possibilità di imprimere nel futuro prossimo una svolta antiliberista alle politiche economiche, ma è invece diffuso un moderato ottimismo sulla possibilità di respingere le aspirazioni integraliste. La credibilità di Ennahda nelle prime elezioni libere sarebbe dipesa anche della lunga opposizione svolta dalle organizzazioni islamiche al regime e pagata spesso con parecchi anni di carcere dai loro dirigenti, diventati in seguito i candidati di punta del partito islamico; ad esempio l’attuale Ministro dei Trasporti ha trascorso sedici anni in carcere. Ma tale credibilità sarebbe ora in forte calo per il crescere della corruzione e per i tanti errori commessi nel governo seguito alla primavera tunisina.
Su un aspetto tutti i nostri interlocutori concordano: la rivoluzione è ancora in corso, sarà un processo lungo che necessiterà anche di una concreta solidarietà internazionale. E questo riguarda anche noi.