La società libanese si compone di quattro milioni di persone che fanno riferimento a diciotto autorità religiose aventi giurisdizione su questioni di statuto personale come la custodia dei minori e l’eredità, il matrimonio e il divorzio. Affianco all’accesa discussione sulla legge elettorale, c’è anche l’istituto del matrimonio a occupare l’attuale dibattito politico libanese, seguito da una grande eco mediatica sulla proposta di introduzione delle unioni civili.
La questione dei matrimoni civili e della loro inclusione nel sistema legale nazionale non è nuova ai libanesi. Se ne parlava già negli anni ‘50 e, nel 1998, l’allora presidente Elias Hirawi, aveva proposto una legge per il riconoscimento delle unioni civili ottenendo l’approvazione del gabinetto. Poi quell’iniziativa fu abbandonata a causa della ferrea opposizione dei religiosi, la stessa che si sta interponendo nuovamente oggi: comunità islamica e cristiana in testa.
Nel 2010 alcuni attivisti libanesi avevano lanciato una campagna intitolata “Shamil” (unioni), ma è a fine 2012, con la firma del primo matrimonio civile, che l’intera questione torna alla ribalta contribuendo all’edificazione della giurisprudenza di un Paese civile, tendenzialmente liberale in una realtà regionale conservatrice.
Il 10 novembre 2012 è stato l’atto coraggioso di due cittadini libanesi a segnare un precedente nella storia legale del Libano.
Nella loro battaglia per la legalizzazione del proprio matrimonio civile, Khulud e Nidal sono stati affiancati da una consulenza legale a difesa della causa, affinché il loro caso non fosse giudicato come singolo episodio, ma mettesse in discussione la più generale questione dell’identità nazionale libanese, quella in un permanente stato di fragilità. Se la loro richiesta sarà accolta dai Ministeri dell’Interno e della Giustizia, essa contribuirà a rafforzare l‘identità nazionale, superando le eterne divisioni socio-politiche derivanti dall’appartenenza religiosa.
Avvalendosi di una disposizione introdotta nel 2009, i due cittadini che per primi in Libano hanno contratto un’unione civile, hanno fatto rimuovere dai propri documenti l’indicazione della comunità religiosa d’appartenenza. Questo atto avrebbe aperto loro la strada per rivendicare il diritto di contrarre il matrimonio nella forma contrattuale più consona alle loro attese di coppia nella società. Tuttavia non avendo mai fatto parte del sistema legale del Paese il matrimonio civile, la possibilità di omettere l’appartenenza religiosa resta un fatto di natura amministrativa. Per i cittadini libanesi, infatti, non è possibile esistere al di fuori del sistema delle comunità religiose entro cui il dibattito sulla legalizzazione dei matrimoni civili non può che complicarsi.
Non esiste in Libano nessuna legge che renda leciti i matrimoni civili”, aveva affermato il Ministro dell’Interno e, per risposta al Ministro, i legali avevano citato il decreto francese n°60/1936 con il quale molte questioni di statuto personale (della tradizione legale ottomana) venivano sottratte alla competenza fino ad allora riservata ai religiosi.
L’iter burocratico del primo matrimonio civile era stato oggetto di discussione sui Social Network. La proposta ha ricevuto il rifiuto del Premier Najib Miqati e ha trovato un grande sostenitore nel Presidente della Repubblica, Michel Sulaiman, che a gennaio aveva rilasciato su Facebook, e poi su Twitter, diverse dichiarazioni in cui spiegava le ragioni per le quali le unioni civili andassero legiferate e incorporate nella legge del Libano.
“Le unioni civili ci aiuteranno a superare considerazioni di ordine settario e ci vedranno insieme nell’unità nazionale (…) Dal Libano, un esempio che possa essere d’ispirazione per il resto dei Paesi confinanti”, aveva scritto Sulaiman.
Tra i circa diecimila “like” che il presidente libanese si è guadagnato su Facebook non c’è stato quello dei leader religiosi, che hanno ammonito i propri fedeli dall’esprimere il consenso ai matrimoni civili. Qualcuno ha presagito l’estinzione del cristianesimo in Medio Oriente, altri hanno lanciato il monito di apostasia contro chi intendesse sostenerli, come ha fatto tramite una Fatwa (decreto), Shaykh Muhammad Rashid Qabbani.
Questi fatti hanno spostato l’attenzione mediatica dalla lotta per i diritti civili verso osservazioni di natura settaria e faziosa, impedendo di comprendere appieno il significato dell’adozione delle unioni civili in un Paese multi confessionale come è il Libano. Per contrarre matrimonio civile, ogni anno 700 cittadini libanesi si recano a Cipro (che ha introdotto le unioni civili da quando è membro dell’Unione Europea), oppure in Turchia.
Il governo libanese riconosce queste unioni solo se contratto all’estero.
Quella di Khulud e Nidal è un’istanza di base; essi rivendicano diritti civili in qualità di cittadini, prima di farlo dalla propria associazione religiosa, e la scelta di eliminare la specificazione della propria religione non coincide con la volontà di rinnegare l’associazione religiosa o, addirittura, la fede.
“Il fatto che io porti il velo non significa che non possa essere a sostegno della laicità”, ha tenuto a specificare Khulud.
Da un punto di vista legale, l’approvazione delle unioni civili si tradurrebbe col sottrarre materia, e la relativa competenza, alla gestione clericale che ha spesso dato luogo a discriminazioni, vincoli o restrizioni, che ha prodotto tensioni interne e ha tracciato confini e incomprensioni, a volte insormontabili, tra comunità etnico-religiose che convivono nella stessa società.
Il tentativo dei due coniugi e di tutti quelli che in Libano portano avanti questa causa non è diretto a sconfessare una storia personale, familiare o la propria identità religiosa, ma è una lotta per la laicità. Anche questa storia rischia di essere strumentalizzata e assorbita dal dispersivo dibattito elettorale, a dimostrazione di come il pluralismo, proprio della composizione libanese, venga puntualmente escluso quando si tirano in ballo aspetti della democrazia.
Elisa Gennaro