Intervista a Giovanni Urro, presidente dell’associazione Karama di Sesto San Giovanni (Mi), impegnata in progetti di solidarietà e difesa del popolo Saharawi.
Ci racconta la storia dei Saharawi?
I Saharawi sono un popolo di origini nomadi che vive nella ex-colonia spagnola del Sahara occidentale. Il deserto occupa la totalità del loro territorio e con esso i Saharawi hanno imparato a convivere da secoli.
Nel 1975 è finalmente terminata la lunga colonizzazione spagnola, ma ne è iniziata un’altra: col placet proprio della Spagna, il territorio è stato invaso dai vicini, Mauritania e Marocco. Nessuno spazio è stato lasciato alla R.A.S.D. (Lo Stato dei Saharawi -Repubblica Araba Saharawi Democratica), che aveva condotto la guerra di liberazione contro gli spagnoli. Ben presto la Mauritania si è ritirata, ma il Marocco ha mantenuto ed allargato la sua occupazione. Non solo: l’occupazione militare è stata accompagnata dal trasferimento di decine di migliaia di famiglie marocchine nelle città del Sahara occidentale (la cosiddetta Marcia Verde) nel tentativo di stravolgere gli equilibri demografici delle città conquistate.
Lo scoppio della guerra è stata la conseguenza di queste ingiustizie: da una parte il gigante marocchino, con un esercito regolare e discretamente equipaggiato, dall’altra il piccolo Davide Saharawi, che con un’estenuante guerriglia nel deserto ha tenuto in scacco gli avversari per oltre 15 anni. Ne è stata protagonista per parte saharawi l’organizzazione del Fronte Polisario, una sorta di comitato di liberazione nazionale nato per condurre la guerra, ma anche le trattative di pace all’ONU, con suoi organismi democraticamente eletti, con sue delegazioni in molti paesi del mondo (una anche a Sesto San Giovanni che si occupa dell’Italia settentrionale) e per questo malvista dai marocchini che la accusano di fiancheggiare Al Qaeda per gettare discredito sul suo operato.
Il risultato dello scontro aperto fu, come per ogni guerra, un disastro umanitario: per sfuggire alla repressione decine di migliaia di Sahrawi hanno abbandonato le loro città e sono scappati nell’entroterra, lì dove il deserto è più inospitale, nell’hammada algerino. Hanno piantato le loro tende secondo le antiche tradizioni beduine e così sono nati i campi profughi di Tindouf, in Algeria. Intanto la guerra ha prodotto un altro orrore: un muro di oltre 2.000 Km nel deserto, eretto per dividere l’entroterra dalle ricche città costiere occupate dal Marocco, presidiato da truppe marocchine e minato (spesso con mine anti-uomo di produzione italiana). Oggi i Saharawi vivono al di qua e al di là di quel muro che divide fratelli, sorelle, padri e figli in attesa che la comunità internazionale si ricordi di loro. Ci sono Saharawi nei campi-profughi che non rivedono i loro parenti dal 1975 e altri che non hanno potuto rivedere i loro cari, i loro genitori nemmeno per gravi lutti.
La guerra è durata fino al 1991, quando è iniziato il cessate-il-fuoco. Da allora, sotto l’egida dell’ONU, si conducono negoziati a New York per una soluzione definitiva del problema, che per la verità è stata già individuata: un referendum per decidere le sorti di questa che oggi è l’ultima colonia d’Africa, che preveda tutte le opzioni possibili: l’integrazione nello stato del Marocco, l’autonomia ma sempre dentro i confini marocchini, oppure l’indipendenza. Facile a dirsi, difficile a farsi se è vero che il Marocco, dopo tutti questi anni, deve ancora organizzare la macchina della consultazione.
Intanto i campi-profughi, nati come sempre come una realtà temporanea, sono oggi un insediamento permanente e nelle città occupate i Saharawi vengono sottoposti a gravi violazioni dei diritti umani. I giovani cominciano a pensare che la pace sia inutile per risolvere i loro problemi e le sirene di Al Qaeda nel Maghreb islamico si fanno sentire con sempre maggiore insistenza. I Saharawi sono un popolo che sa tenersi lontano da estremismi religiosi, avendo costruito negli anni la società più laica del mondo islamico. Eppure…. usque tandem……? ….fino a quando…..?
Dal 21 maggio 2005 nei territori occupati del Sahara Occidentale è in corso una resistenza popolare nonviolenta, per protestare contro la violazione sistematica dei diritti fondamentali. Qual è e quale è stata la risposta del governo del Marocco?
Il governo del Marocco ignora i diritti elementari del popolo Saharawi e discrimina coloro che rivendicano l’appartenenza a questo popolo. Un esempio? Il 15 novembre 2009 un’attivista Saharawi dei diritti umani ritorna da New York, dove ha ritirato il Premio Kennedy conferitole dall’omonima Fondazione per il suo impegno civile e nonviolento per il rispetto dei diritti umani. Si chiama Aminatou Haidar, ma è nota come la Gandhi del Sahara per la sua protesta sempre nonviolenta nonostante abbia conosciuto sulla sua pelle gli orrori delle prigioni, lo status di desaparecida e la tortura. Ebbene, questa donna per far ritorno a casa osa scrivere come sua destinazione sul foglio di sbarco “Sahara occidentale” invece di “Marocco”. Per la polizia di frontiera è intollerabile. Non le viene consentito di tornare a casa. Giunta in aeroporto viene imbarcata su un altro aereo e rispedita indietro, nella vicina Lanzarote (Canarie). Lì Aminatou conduce un’altra, ennesima protesta civile: uno sciopero della fame che dura quasi un mese, che mobilita le autorità internazionali e alla fine le consente il rientro in patria. Morale: per il Marocco non esiste un paese denominato Sahara occidentale e solo citarlo può costare l’allontanamento coatto dai propri cari.
L’esempio più eclatante è forse quello più recente legato alla cosiddetta primavera araba. Prima della Tunisia, dell’Egitto, della Libia… infatti, è proprio nel Sahara occidentale che scatta la rivolta contro i regimi dispotici. Il 10 ottobre 2010 alcune decine di Saharawi, in segno di protesta contro le gravi discriminazioni attuate nei loro confronti e le ripetute violazioni dei più elementari diritti umani, attuano una protesta ancora una volta all’insegna della nonviolenza: escono da Al Aayoun (la loro capitale) e si ritirano nel deserto a 12 Km dalla città. Qui installano le loro tende e vivono secondo le antiche tradizioni beduine: è quello il loro modo di ricordare al Marocco e al mondo che esiste una dignità saharawi che non vuole essere spezzata. Col passare dei giorni le tende aumentano, il campo cresce. La protesta rischia di diventare dilagante e visibile anche ai media internazionali. Allora il Marocco decide di intervenire: l’8 novembre 2010 le truppe speciali irrompono in un campo di 8.000 tende, che ospita 20.000 persone e lo distruggono, sgomberando con la forza tutti i Saharawi. Tredici di essi perdono la vita negli scontri. Molti di più sono quelli che finiscono nelle prigioni marocchine, in attesa per mesi di conoscere i capi d’accusa nei loro confronti. Poche settimane fa è arrivata la prima sentenza a carico di 25 arrestati per i fatti di Gdeim Izik: a 9 di loro un Tribunale Militare ha comminato la pena dell’ergastolo!!!! E questo per l’unica colpa di essersi ritirati nel deserto a protestare…
L’Unione europea rappresenta il principale sostenitore della causa del popolo Saharawi. Destina fondi, adotta risoluzioni e proposte e presenta interrogazioni al riguardo, ma allo stesso tempo sottoscrive trattati con il Marocco e indirettamente riconosce la sovranità marocchina sui territori occupati. Come giudica tale atteggiamento?
Si tratta di un atteggiamento talora ambiguo, dovuto anche alla scarsa conoscenza della questione Saharawi da parte di chi dovrebbe pronunciarsi in merito. Lo scorso anno abbiamo cercato di sollecitare gli europarlamentari eletti in Italia a prodigarsi per impedire che l’Unione Europea sottoscrivesse un trattato con il Marocco, che avrebbe consentito lo sfruttamento delle pescosissime coste del Sahara occidentale. Ebbene, con mio grande stupore, ho personalmente verificato come parlamentari anche illustri ed autorevoli avessero prima sostenuto la nostra posizione e poi votato a favore della ratifica del trattato. Una grande contraddizione, che denuncia la superficialità di certi comportamenti.
In generale, l’Unione Europea potrebbe fare molto di più per il Sahara occidentale. Peccato che talune super-potenze europee, per propri tornaconto economici e strategico-militari, appoggino apertamente il Marocco. Mi riferisco alla Francia, storica alleata della monarchia marocchina.
Come nasce Karama, associazione di solidarietà con il popolo Saharawi e quali sono i suoi obiettivi?
Karama nasce sulla scia di un impegno di solidarietà con i Saharawi che coinvolge la città di Sesto San Giovanni da oltre 15 anni. La solidarietà spontanea dei sestesi che negli anni hanno conosciuto i bambini Saharawi accolti durante l’estate per un progetto del Comune, nell’ottobre 2012 si è tramutata in una nuova associazione, che affianca all’accoglienza dei bambini altri momenti di informazione e sensibilizzazione sul tema.
Gli obiettivi riguardano la diffusione della conoscenza della questione Saharawi all’interno di un’opinione pubblica che non riceve mai notizie su questo popolo e sulle gravi violazioni dei diritti umani di cui è vittima. E poi ancora il radicamento dell’accoglienza dei bambini in altri Comuni, come dimostrazione tangibile che i popoli, la gente comune (se non i governi) non si sono dimenticati dei Saharawi e continuano a essere loro vicini.
Esistono molte associazioni in Italia a sostegno della causa Saharawi?
Sì, sono decine le associazioni presenti su tutto il territorio nazionale che si occupano dei Saharawi, da Trento a Gela, seppur con un maggiore radicamento nell’Italia centrale (Emilia Romagna e Toscana). Molte di esse fanno capo all’Associazione Nazionale Solidarietà con il Popolo Saharawi (A.N.S.P.S.), che ha sede a Roma e coordina il lavoro sui territori. Grazie al loro impegno ogni anno oltre 400 bambini arrivano in Italia dai campi-profughi di Tindouf durante l’estate, quando le temperature là arrivano fino a 50°. Si curano, spezzano la routine della vita nel deserto, vivono un’esperienza di solidarietà internazionale, ci fanno il dono di conoscere la loro cultura, le loro tradizioni, la storia del loro popolo. Molti italiani li seguono ogni anno nei campi per vivere insieme a loro, portare aiuti, medicinali, beni di prima necessità… a volte anche semplicemente un sorriso che sa di solidarietà vera. Una di loro era la “nostra” Rossella Urru, rapita nei campi di Tindouf nell’ottobre 2011, prigioniera per 9 lunghi mesi di bande di predoni nel deserto e finalmente liberata nel luglio 2012.
Come vede il futuro di questo popolo?
Sono preoccupato, molto preoccupato. Il Fronte Polisario ha tenuto il suo ultimo congresso nel dicembre 2011. Per la prima volta sono emerse divergenze che riflettono un clima strisciante di sfiducia tra le giovani generazioni. I giovani Saharawi dicono che negli anni di guerra si è ottenuto di più che in tanti anni di pace. Si rendono conto che le trattative non portano a risultati concreti, che l’ONU non fa rispettare le sue risoluzioni, che la comunità internazionale si è dimenticata dei Saharawi e la loro permanenza nei campi-profughi potrebbe durare all’infinito. E i Saharawi non vogliono vivere di aiuti internazionali per sempre. Forte è dunque la tentazione di riprendere la guerra perché il mondo faccia qualcosa.
Intorno a loro si aggirano poi gli sciacalli dell’integralismo islamico. Fortunatamente il fronte Polisario ha saputo costruire negli anni validi anticorpi: la società saharawi è pienamente laica sul piano religioso e le donne, ad esempio, hanno un livello di emancipazione inimmaginabile in altri paesi simili. Studiano, ricoprono ruoli autorevoli nella società e nella politica e spesso sono proprio loro le vere leader popolari.
Nonostante questo bisogna fare attenzione e spingere le Istituzioni tutte affinché si adoperino ciascuna nel proprio ambito per trovare una soluzione rapida, giusta e duratura alla questione del Sahara occidentale. In mancanza di ciò, la ripresa del conflitto sarà inevitabile e anche non lontana nel tempo, con effetti facilmente immaginabili sulla stabilità dell’area (si pensi a quanto successo di recente nel Mali, che è lì a due passi e alla lunga e sanguinosa guerra civile algerina). Per questo non bisogna rassegnarsi, continuando a lavorare per la pace anche nell’ultima colonia del continente africano.