Il 2012 è stato segnato dal sacrificio di migliaia di detenuti palestinesi che languono nelle prigioni dell’occupazione israeliana.

Le azioni di sciopero della fame di massa senza termine hanno avuto il merito di riportare all’attenzione mondiale uno degli aspetti prioritari della causa palestinese.

La loro presenza nei penitenziari dell’occupazione potrebbe anche superare le 10mila unità, stando a fonti locali e più di 4.500 detenuti palestinesi sono definiti “politici” senza aver tuttavia mai ricevuto un’accusa dal reale carattere politico.

Per questo chi scrive opta per il termine “detenuto” preferendolo a quello di prigioniero in relazione alla validità di un’accusa nell’ambito di un processo di giudizio altrettanto valido.

Già il 2011 aveva preannunciato gli eventi del 2012 con uno sciopero di massa partecipato da oltre mille detenuti e conclusosi con l’accordo di scambio di ottobre; “mille palestinesi contro un soldato israeliano”.

Da quella data Israele ha fatto un uso esteso della detenzione amministrativa (oggi sono 187) nei confronti di quanti restavano in prigione, questo è stato il caso di Samer al-Barq e di Hassan Safadi , impegnati a scioperare da lungo tempo.

Quando invece la detenzione arbitraria non è stata prorogata e sono stati rispettati i termini per le liberazioni, Israele ha provveduto a ordinarne il riarresto. Questo è stato invece il caso di Thaer Halahla , rilasciato a giugno scorso e oggi all’80° giorno di sciopero della fame.

Ma Israele ha lunga esperienza di pratiche magiche e riesce sempre a rendere ‘lecito’ in casa propria ciò che è illecito e abusivo. Così in ogni accordo raggiunto con la rappresentanza dei detenuti palestinesi, le autorità carcerarie hanno si riservano la deroga della giustificazione del file segreto, con cui rinnovare a oltranza le detenzioni amministrative senza dover fornire alcuna motivazione, né accusa.

La personale lotta di Khader ‘Adnan aveva ispirato molti altri detenuti a ribellarsi alle pratiche disumane di Israele all’interno delle prigioni; illegali detenzioni amministrative prive di accusa ed estendibili per periodi che vanno dai tre o dai sei mesi fino all‘infinito.

Nella primavera scorsa un altro sciopero di massa era stato intrapreso da oltre duemila detenuti che chiedevano il ripristino dei diritti fondamentali come l’accesso all’istruzione e la fine delle detenzioni in isolamento.

Anche allora Israele aveva ingannato tutti promettendo che avrebbe posto fine alle pratiche illegali delle detenzioni amministrative, ma a nove mesi di distanza dalla conclusione di quello sciopero, tutti si sono ritrovati nuovamente nel labirinto israeliano dell’arbitrarietà.

In queste settimane, mesi per alcuni, un altro intenso sciopero della fame è in corso nelle prigioni israeliane.

Ieri scrivevamo delle imprese di ‘Adnan e della detenuta ash-Shalabi e oggi diventa un dovere morale riportare le storie dei detenuti Ja’far ‘Izz Id-Din, Tareq Qa’adan, Yousef Yassin, Ayman Sharawna e Samer al-‘Issawi e di altri palestinesi che rischiano la vita nell’immediato.

‘Izz Id-Din, Qa’adan e Yassin erano stati arrestati a novembre scorso, poco dopo la rottura della tregua che aveva scatenato altra furia su Gaza.

In quelle operazioni di arresto oltre 50 palestinesi erano stati catturati da Israele nelle proteste in Cisgiordania.

Qa’adan e ‘Izz Id-Din sono all’80° giorno di sciopero. Rilasciati nell’estate 2012 (Qa’adan aveva scontato 15 mesi in prigione ed era stato rilasciato l’8 luglio, ‘Izz Id-Din era stato liberato il 9 giugno dopo tre mesi), i due palestinesi avevano preso parte allo sciopero primaverile dal 17 aprile al 14 maggio. Poi il 22 novembre è giunto il nuovo arresto con la detenzione amministrativa di un (primo) termine di tre mesi.

Entrambi scioperano dal 28 novembre. Come al-‘Issawi, anche ‘Izz Id-Din ha intrapreso lo sciopero della sete e insieme a Qa’adan rischia un attacco cardiaco. Entrambi si trovano all’ospedale israeliano Assaf Harofi (Tel Aviv) dal 24 gennaio.

Questa volta l’oltranzismo israeliano potrebbe avere effetti devastanti, o “permanenti”, come ha avuto modo di dire Richard Falk, Relatore speciale ONU per i Diritti Umani in Palestina, nella sua condanna resa pubblica due giorni fa da Ginevra.

Resta il grande vuoto seguito alle dichiarazioni per le scelte israeliane provenienti dal Parlamento europeo e dal Segretario Generale ONU Ban Ki-moon.

L’indifferenza delle autorità carcerarie per le richieste dei detenuti è coerente con l’inosservanza che Israele ha riservato ai punti dell’accordo sottoscritto con il Movimento dei detenuti e che genericamente dovevano reintrodurre un rispetto delle condizioni standard sui Diritti Umani.

Niente di quanto Israele si era impegnato a fare è stato rispettato; continuano le detenzioni amministrative (vecchie e nuove) e gli isolamenti, i raid notturni e i divieti all’interno delle prigioni.

Solo le visite dei parenti dei detenuti di Gaza sono state permesse grazie a un estenuante processo di mediazione della Croce Rossa Int.le e sempre in bilico giacché non si sa se tutto ciò reggerà.

I detenuti palestinesi in gravissime condizioni di salute oggi sono Samer ‘Issawi e Ayman Sharawna, rispettivamente al 207° – segnando il record – e al 103° giorno di sciopero della fame.

Dalla clinica di Ramle al-‘Issawi è stato trasferito all’ospedale Assaf Harofi e la sua determinazione a non cedere alle pressioni israeliane senza riavere la sua libertà potrebbe condurlo ad un vicolo cieco.

Il detenuto non mangia e non beve, rifiuta la somministrazione di vitamine e le autorità sanitarie del penitenziario israeliano – su ordine dell’Intelligence – gli iniettano forzatamente del glucosio. Se si è in sciopero da lungo tempo, quest’operazione potrebbe essere altamente lesiva per l’organismo.

Dopo mesi di diniego da parte israeliana, i suoi legali l’hanno potuto incontrare lo scorso 9 febbraio e si sono detti sconcertati per aver visto quell’uomo di 33 anni scarnito (pesa 46Kg), su una sedia a rotelle, ma fiero di quanto sta sopportando.

Samer è veramente debole, ha frequenti svenimenti, abbassamenti di pressione e perde sangue dalla bocca.

Israele fornisce pessime condizioni sanitarie nelle strutture, dove trasferisce coloro maggiormente a rischio e non permette alcun trattamento indipendente dall’esterno a carico dei familiari.

La storia dell’arresto di al-‘Issawi. Arrestato nel 2002 e accusato di detenzione di armi e affiliazione a un gruppo armato, al-‘Issawi fu condannato a 30 anni per poi essere rilasciato a ottobre 2011 nell’ambito dell’accordo di scambio.

foto da occuppiedpalestine.wordpress.com
Il 7 luglio 2012 Israele lo ha catturato di nuovo accusandolo di aver violato i termini per il suo rilascio. Al-‘Issawi è residente a Gerusalemme e, secondo la versione dell’accusa, si sarebbe recato nella vicina Cisgiordania.

Tenuto dapprima nel centro d’indagine al-Muskubiyya, Samer è stato interrogato e torturato per 28 giorni. I suoi legali lo avevano potuto incontrare solo al 23° giorno dall’arresto.

Da luglio è in sciopero – sono trascorsi sette mesi – e molte pressioni sono state fatte su di lui e sulla sua famiglia. L’abitazione del fratello è stata demolita a gennaio e la rete idrica è stata interrotta in casa della sorella.

Com’è accaduto nelle vicende di quanti avevano scioperato prima di lui, anche il suo caso oggi sta diventando di carattere umanitario a causa dell’imminente pericolo che affronta, ma come quanti lo avevano preceduto, anche al-‘Issawi è consapevole della vera natura di questa azione e dell’importanza di andare avanti.

E’ di oggi la lettera che il detenuto ha indirizzato alla sorella Shirin con la richiesta di essere seppellito nel cimitero adiacente alla moschea di al-Aqsa, affianco al fratello, e chiedendo che Israele non infierisca sul suo cadavere con un’autopsia.

Nonostante la debolezza, Samer trova il coraggio di riappropriarsi della verità alla base della sua lotta.

Se, infatti, fosse solo un caso umanitario, la parte israeliana avrebbe già accolto la sua richiesta; e invece oggi in Israele tre giudici militari – i quali né in teoria, né in pratica avrebbero giurisdizione su un cittadino gerosolimitano – chiedono di invalidare l’amnistia di cui aveva beneficiato al-‘Issawi, e anzi, vogliono una condanna a 20 anni senz’accusa, impedendo ai suoi legali di costruire una difesa.

Questo è solo uno dei numerosi capitoli della storia che i palestinesi hanno chiamato “Una lotta fedele al sangue versato dai martiri”, dando a intendere come la battaglia sia quella per la sopravvivenza, per l’esistenza e la realizzazione in forma di autodeterminazione di un popolo intero.

Come aveva detto ‘Adnan nei suoi giorni più duri, anche Samer tiene a ricordare che la causa “è nazionale e non è una questione personale” e, salutando la sorella per via epistolare, scrive:

Mi rendo conto di essere giunto alla fine di questo tunnel, so che presto vedrò la luce; quella della libertà o quella del martirio”.

Oggi è il “Venerdì per rompere il silenzio” lanciato sul web e il “Venerdì dell’ira” nelle piazze palestinesi.

Tutti conoscono il valore di questi scioperi, l’onore e le conseguenze che producono nell’avanzamento della causa palestinese.

In Palestina, dove mediamente ogni famiglia ha conosciuto la detenzione, nessuno si fa intimorire dal rischio di cadere ostaggio di Israele, se tale pericolo significa dar voce alla propria causa nazionale nel modo in cui lo stanno facendo oggi al-‘Issawi, al-Barq, Safadi, Halahla, Qa’adan, Yassin, ‘Izz Id-Din e Sharawna.

E’ dell’ultima ora la notizia secondo cui altri 360 detenuti palestinesi si uniscono allo sciopero della fame.

E’ un’istigazione quella israeliana alla legalità internazionale e alla pazienza di un popolo e dei suoi sostenitori in tutto il mondo, impegnati a scioperare, a inoltrare appelli alla Comunità internazionale e a indire sit-in di solidarietà.