Mercoledì 6 febbraio, il Centro medico Razan di Nablus, nel nord della Cisgiordania occupata, ha tenuto una conferenza stampa per rendere pubblico in via ufficiale il buon esito di quattro interventi di inseminazione artificiale.
Non ci sarebbe nulla di strano in tutto ciò se non fosse che quella che stiamo per raccontare è la storia di un’altra vittoria della resistenza del popolo palestinese, condannato a vivere sotto la pluridecennale occupazione militare israeliana.
Le mogli di quattro prigionieri palestinesi sono rimaste incinte dopo essersi sottoposte a inseminazione artificiale del seme che i rispettivi mariti hanno “contrabbandato” dai penitenziari dell’occupazione.
I protagonisti di quest’avventura sono palestinesi condannati a lunghe pene detentive e a pluriergastoli e poiché Israele vieta loro il diritto a incontrare privatamente le proprie mogli, questi hanno pensato di “trafficare” il proprio seme all’esterno del carcere. Il trascorrere degli anni – o della vita -, si potrebbe qui specificare, abbassa le possibilità di fertilità per entrambi i coniugi e a quest’osservazione si deve aggiungere un dato; sui circa 5mila palestinesi detenuti da Israele, 500 stanno scontando l’ergastolo.
Alaa Al-Nazzal, di Qalqiliya, è stato condannato a 25 anni di carcere. Sua moglie è al secondo mese di stato interessante e due giorni fa, in conferenza stampa, ha ammesso di essersi rifiutata inizialmente in protesta al divieto di visitare il marito in carcere. Poi, di fronte a poche speranze, la donna ha accettato.
Osama Al-Silawi, di Jenin, sta scontando 155 anni di pena detentiva. Nel suo caso, se non dovesse intervenire alcun negoziato politico per la liberazione, egli potrebbe non uscire vivo dal carcere israeliano. Israele, infatti, trattiene anche le salme dei detenuti fino a conclusione della pena.
Gli altri due prigionieri che diverranno papà sono Rafat al-Qarawi, palestinese di Ramallah condannato a 15 anni di carcere, e un quarto, del quale non si conosce l’identità, proviene da Gerico.
Il primo prigioniero ad aver “contrabbandato” il proprio sperma fuori dal carcere era stato tempo fa, ‘Ammar Al-Zein, condannato a un pluriergastolo per affiliazione ad Hamas. ‘Ammar è in carcere da 15 anni e da allora non ha più incontrato la moglie che ad agosto ha dato alla luce il piccolo Muhannad.
Le autorità carcerarie israeliane stentano a crederci e sollevano dubbi sulla possibilità di conservare adeguatamente il seme fino a trasportarlo all’esterno. Tanto più che quando Israele permette le visite alle mogli, queste non entrano in contatto diretto con i mariti.
Dal Centro medico rassicurano che i campioni giungono in maniera affidabile e che sono presi in consegna dai laboratori alla presenza dei parenti di entrambi i coniugi, e si ammettono le difficoltà che il seme giunga adeguatamente conservato con regolarità. Numerosi campioni sono andati perduti, ma in questo periodo altrettanti sono in attesa di essere impiantati.
Se per i prigionieri palestinesi Israele solleva divieti che si traducono nella negazione del diritto alla vita stessa, con detenzioni e condanne ingiuste e illegali, paragonabili a sequestri di persona, stessa proibizione non vale per i detenuti israeliani.
I prigionieri israeliani condannati per gravi reati ad esempio, possono ricorrere all’inseminazione artificiale. Si ricorda la storia di Yigal Amir, l’assassino di Rabin, che ha avuto la possibilità, e il diritto, di procreare naturalmente in stato detentivo, senza ricorrere all’inseminazione artificiale.
Già qualcuno chiede di fare il test del DNA su Muhannad e sui quattro bambini che nasceranno presto in Palestina. Aldilà delle opinioni dei più scettici, il movimento dei prigionieri palestinesi proclama un’altra vittoria e lo definisce “un inno alla vita”.
Ciò che conta qui è che, come è stato possibile per ‘Ammar, ora anche ‘Alaa, Osama Rafat e il quarto detenuto potranno incontrare da dietro il vetro quella vita che hanno coraggiosamente “contrabbandato”.