Anche il ricco e tranquillo Canada ha all’interno i suoi conflitti, anche se non se ne parla tanto. E non stiamo parlando dei francofoni del Québec. Gli indigeni del Saskatchewan e di altri territori vengono discriminati fin da quando gli Europei arrivarono in questa parte del Nord America, ma dall’ottobre scorso stanno portando avanti una protesta ormai diventata di massa.
Quando si parla di loro, a dire il vero molto raramente, si utilizzano i termini “indiano”, “indiano d’America”, “indio”, e per alcuni gruppi “eschimese”. Ci riferiamo alle popolazioni indigene del continente americano, gli abitanti originari di quelle terre. Quelli tra essi che risiedono nell’attuale Stato del Canada, in lotta da anni, dagli ultimi mesi del 2012 si stanno facendo sentire in maniera sempre più intensa, da quando il governo di Ottawa guidato dal conservatore Stephen Harper ha presentato alla Camera dei Comuni e fatto approvare il Jobs and Economic Growth Act (Legge-quadro per l’occupazione e la crescita economica). Un provvedimento che dietro il titolo innocuo e perfino speranzoso nasconde in realtà conseguenze nefaste per le popolazioni autoctone canadesi, già fortemente discriminate.
I Nativi del Canada
Procedendo con ordine per capire qualcosa in più della complessa questione, precisiamo innanzitutto che citando gli aborigeni del Canada intendiamo tre diversi gruppi di persone: le cosiddette “Prime Nazioni” (il gruppo più numeroso: oltre 600 comunità autonome sparse su tutto il territorio federale), gli Inuit (che abitano le regioni artiche) e i Métis (discendenti da unioni tra i Nativi ed i primi colonizzatori europei).
Numericamente oggi i Nativi rappresentano oltre un milione di persone, circa il 4% della popolazione del Canada, uno Stato su cui formalmente regna ancora come sovrano Elisabetta II d’Inghilterra. Molti vivono nelle riserve, territori almeno ufficialmente sotto la loro giurisdizione, seguendo i loro stili di vita e le loro cerimonie, generalmente avendo come parole chiave della loro esistenza la natura e la spiritualità. Molti altri, invece, sono urbanizzati e risiedono nelle città canadesi.
Le relazioni tra il governo centrale e le comunità indigene si basano su due tipi di documenti. Uno di questi è l’Indian Act: una legge che dal 1876 dovrebbe definire chi sono gli “indiani” registrati, i loro diritti e doveri e la modalità di vita nelle riserve, ma che in effetti con tutte le sue successive modifiche che arrivano sino ai giorni nostri è servito in realtà a tenere sotto controllo le comunità indigene ed a restringere progressivamente le loro libertà. Oltre all’Indian Act i singoli territori abitati dagli aborigeni hanno stipulato nel corso degli anni dei trattati con lo Stato canadese (qui una mappa interattiva che li presenta, dal sito dell’Università del Saskatchewan), generalmente rimasti mero inchiostro su carta per le autorità di Ottawa.
Una realtà di discriminazione poco conosciuta
Negli anni lo Stato ha provato di fatto a far scomparire culturalmente i Nativi portando avanti un disegno dalle tinte assimilazioniste e colonialiste nei loro confronti. Numerose sono state le discriminazioni attuate nei loro confronti, da un sistema scolastico a loro riservato che di fatto non garantiva un’istruzione di base ed in più non solo non prevedeva la salvaguardia e l’insegnamento delle loro lingue e tradizioni, ma le dipingeva come demoniache e tendeva a farle rigettare dalle nuove generazioni; a divieti assurdi (come quello, ad esempio, di celebrare le cerimonie tradizionali o di lavorare la terra con attrezzi meccanici o di possedere alcolici); fino ad una graduale espropriazione delle loro terre per scopi industriali e di sfruttamento del territorio. La lista delle disuguaglianze tra i cittadini canadesi e gli aborigeni a sfavore di questi ultimi è molto lunga, e si arricchisce, ad esempio, con forti restrizioni allo spostamento ed alle migrazioni; salari molto più bassi e un potere d’acquisto sproporzionatamente minore; dipendenza maggiore per i servizi essenziali dal Welfare governativo; alta incidenza di fenomeni come il suicidio ed elevato. Inoltre le donne aborigene sono le principali vittime di abusi sessuali, violenze, sparizioni e omicidi in tutto il Canada, e spesso con la complicità oppure la negligenza delle forze di polizia: a denunciarlo è un rapporto di Human Rights Watch.
Sconvolgente è che, se in Europa sappiamo poco o nulla di questa situazione, nello stesso Canada le condizioni di vita degli aborigeni sono sconosciute ai più, o nella migliore delle ipotesi velate da preconcetti e luoghi comuni. Lo dimostra anche l’interessante serie di documentari televisivi The Sharing Circle che in una delle sue puntate intervista dei cittadini canadesi su questioni legate ai Nativi e svela le loro limitate conoscenze in materia, contribuendo a sfatare i pregiudizi e fornendo delle informazioni corrette (Il blog Nativi Americani ripropone qui i video dell’inchiesta con tanto di traduzione in italiano: vi consigliamo di dare un’occhiata per approfondire la Storia e le condizioni dei Nativi del Canada).
La legge della discordia e il movimento Idle No More
Il leader del Partito Conservatore e Premier del Canada, Harper, a partire dallo scorso ottobre ha portato nella Parliament Hill un testo di legge, il suddetto Jobs and Economic Growth Act, conosciuto anche come Bill C-45 (qui il testo), che tocca da vicino lo status degli aborigeni ma che è stato redatto senza alcun tipo di consultazione con gli interessati, in violazione di qualsiasi principio democratico e di autonomia delle popolazioni native. In particolare, la riforma mette in atto una serie di modifiche all’Indian Act ed ai trattati, firmati da pari a pari tra nazioni sovrane, tra il Canada e le First Nations. Compromettendo, inoltre, il futuro delle terre, delle foreste e dei corsi d’acqua di tutto il Paese.
Con la solita motivazione dello sviluppo economico del Paese, vedranno la luce numerosi progetti industriali e di sfruttamento delle risorse naturali (dalle miniere di uranio, ai diamanti, al legno di cui sono ricche le foreste nei territori delle Prime Nazioni, alle sabbie bituminose da cui si ricavano gli idrocarburi che fanno gola alle corporation petrolifere), nonché piani di urbanizzazione intensiva e di edilizia. In virtù di ciò, ad esempio, sarà più facile utilizzare a scopo di navigazione le acque che finora hanno permesso il sostentamento di diverse Nazioni attraverso la pesca, con ricadute anche sulla sanità delle acque e senza l’obbligo, finora sancito per legge, di predisporre adeguate analisi di fattibilità ambientale e di chiedere il consenso agli abitanti del territorio.
La cessione e la vendita di territori che rientrano nel perimetro delle riserve diventerà con la nuova legge molto più semplice, e non richiederà il consenso degli aborigeni. Si minerà così alle radici lo stile di vita tradizionale dei nativi, improntato su attività come la caccia e la pesca e sul rapporto pressoché simbiontico con la natura, vista come bene da preservare e da lasciare intatto alle generazioni future. Da quelle parti, anche il concetto di proprietà, tanto importante nella cultura occidentale “moderna”, è visto in maniera diversa e più armonica con la madre Terra: esso consiste infatti, per i Nativi, in una mera regolazione della giurisdizione che gestisce i territori di caccia, non in un possesso che impedirebbe il godimento da parte di tutti dei benefici del territorio. Il governo ed il mondo degli affari vogliono invece imporre il loro stile di vita, improntato all’accrescimento dei profitti senza alcun riguardo delle sue conseguenze sociali e ambientali.
Di fronte a tutti questi rischi, per la sopravvivenza dell’ambiente e degli esseri umani, quattro donne canadesi, indigene e non indigene, hanno cominciato a ribellarsi. Si tratta di Sylvia McAdam, Jess Gordon, Nina Wilson e Sheelah Mclean che hanno messo in piedi a dicembre, nei giorni dell’approvazione del Bill C-45, sit-in, volantinaggi, marce e dimostrazioni pacifiche per far conoscere la vicenda. Il fatto che siano donne e che stiano portando avanti questa protesta nonviolenta per difendere il diritto all’autodeterminazione dei popoli nativi la dice lunga sulla “modernità” dei rapporti di genere e dei processi democratici di comunità che invece vogliono farci passare come arretrate e primitive.
In poche settimane la protesta, al grido di Idle No More! (Mai più passivi!), si diffonde in Canada per poi estendersi anche negli Stati Uniti e trovare appoggio diffusamente nel mondo. (Mai più passivi!). Se i media tradizionali sono restii a dare spazio a questo crescente movimento, è sulla rete ed i social network che viaggia la protesta indigena. Il tag di twitter #IdleNoMore diventa tra i più citati in Nord America e la pagina Facebook del movimento raggiunge decine di migliaia di utenti in pochissimo tempo. Gruppi a sostegno della campagna nascono in tutto il mondo (a questo link quello italiano) e numerosi sono i blog, i siti e le web-tv che cominciano a occuparsi del fenomeno. Si moltiplicano le azioni informative e di protesta in Canada ed altrove, arrivando a paralizzare i trasporti nelle principali città del Paese. Il 28 gennaio 2013 è stata dichiarata Giornata mondiale di azione Idle No More contro gli attacchi alla Democrazia, alla Sovranità Indigena, ai Diritti Umani e alla Protezione dell’Ambiente, con centinaia di mobilitazioni in tutto il mondo.
I riflettori sulle condizioni dei Nativi canadesi, già precarie e ora messe ancor più a rischio dai recenti provvedimenti governativi, sono però accesi in maniera intensiva da due avvenimenti: il rifiuto di accogliere nelle aule del Parlamento una delegazione delle First Nations convocata dal Nuovo Partito Democratico (all’opposizione) in occasione della seduta che avrebbe approvato la legge; e soprattutto l’eclatante sciopero della fame di Theresa Spence, capo della Nazione Attawapiskat, portato avanti per ben sei settimane sull’isola vittoria (proprio con vista di fronte alla collina del Parlamento di Ottawa) fino a quando il governo non ha firmato una dichiarazione in cui si impegna nei prossimi anni a risolvere questioni delicate per gli autoctoni come quelle degli alloggi e dell’istruzione, e a convocare un tavolo tra rappresentanti degli indigeni, Primo Ministro e Governatore Generale sul rispetto e sull’ ammodernamento dei Trattati tra la Corona e le Nazioni.
Ma gli attivisti indigeni non abbassano la guardia. Come si legge nel Manifesto della Campagna Idle No More, davanti alla situazione in cui uno dei Paesi più ricchi al mondo ha al suo interno enormi disuguaglianze, con gente in condizioni di estrema povertà mentre le grandi aziende fanno profitti e devastano l’ambiente, «ci sono invece molti esempi di altre nazioni che si stanno muovendo verso la sostenibilità, e anche noi dobbiamo chiedere uno sviluppo sostenibile. Noi crediamo in comunità prospere, giuste, eque e sostenibili ed abbiamo una visione ed un piano per costruirle. Unitevi a noi nel creare questa visione».
Al di là della situazione contingente di un milione di persone (pur da non sottovalutare), la mobilitazione per i diritti dei Nativi in Canada è una lotta più generale contro il colonialismo e le politiche neoliberiste che stanno gravemente colpendo l’ambiente e i diritti della persona e che riguardano tutti, non solo i popoli indigeni. Immediato è il pensiero, ad esempio, alle tante “opere” imposte in Italia in nome del progresso economico e civile ma che costituiscono nei fatti un grave attentato all’ecosistema ed alla capacità decisionale degli abitanti dei vari territori: la Tav in Val di Susa, il Ponte sullo Stretto di Messina, il MUOS di Niscemi, la Base Militare Dal Molin a Vicenza, ma anche le numerose discariche aperte con la forza nel paese… e l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Domenico Musella