Nel corso del dibattito sulle riforme politico-economiche attualmente in corso in Giordania emerge inevitabilmente l’elemento palestinese e si distingue così il grado di interazione tra le due componenti dominanti l’identità del Regno hashemita. Un’identità plasmata proprio su questa convivenza; ora condotta nel pieno dell’integrazione, ora sottoposta a tensioni derivanti dall’insicurezza sociale degli uni o dalla debolezza dello status legale degli altri, e comunemente visibile sul campo del conflitto sociale.
La presenza dei palestinesi è stata percepita immancabilmente come motivo di destabilizzazione interna e compromettente le relazioni internazionali dai Paesi arabi che diedero loro accoglienza in seguito alle prime fasi storiche della pulizia etnica della Palestina da parte israeliana.
Nei momenti di maggior alterazione dell’equilibrio interno, quando cioè la sicurezza sociale viene meno e le tensioni regionali minacciano di implodere anche in Giordania, stabilità economica e giustizia sociale, distribuzione delle ricchezze ed occupazione disvelano quale sia il reale grado di convivenza tra le comunità.
Per mezzo di un linguaggio di classe, i giordani sono protagonisti di un dibattito pubblico che si sta realizzando sul terreno delle riforme tanto attese; quelle che dovrebbero creare fiducia politica e rimettere in moto l’economia. In meno di 20 mesi si sono alternati ben cinque premier, tutti nominati dal Re ‘Abdallah II in persona e ciascuno con la propria formula su riforme strutturali. Nel mezzo delle proteste regionali, questi hanno tentato di guadagnare tempo per sventare una Primavera Araba in Giordania. L’ultima nomina risale a una settimana fa con ‘Abdallah an-Nusur.
Per risolvere il debito pubblico e fermare l’inflazione, le sfide maggiori per testare le potenzialità di una ripresa economica del Paese sono sospese sulla capacità produttiva e sulla stabilità regionale.
Inoltre, le recenti crisi derivanti dal calo di rifornimento di gas dall’Egitto e dalla sospensione delle relazioni con la Siria, principale partner commerciale della Giordania insieme a Turchia ed Europa, hanno avuto ripercussioni rispettivamente sul costo della vita e sulle esportazioni, quindi anche sull’impiego.
Ecco perché la politica di riforme lanciata in Giordania punta sulla stabilità fiscale, sul tamponamento del debito pubblico, a richiamare investimenti nel Paese e, soprattutto, a creare nuovi posti di lavoro per i cittadini giordani. Evidentemente qualcuno farà le spese di simili manovre, si pensi alla componente palestinese nel Paese, ma non solo.
Il quadro, infatti, non sarebbe completo se non aggiungessimo due altre importanti esperienze dalle quali, quale che sia l’opinione, è stata già scritta un’importante pagina della storia contemporanea della Giordania. In ordine di tempo, il primo è stato l’arrivo (il secondo in massa dopo quello della Guerra del Golfo), di 350mila profughi iracheni in seguito all’invasione statunitense del Paese.
Il secondo evento è l’attuale comparsa di oltre 30mila profughi dalla Siria.
La vulnerabilità della tragedia che ha investito questi due popoli con sfollamenti, dispersione della comunità, insicurezza sociale e personale, non li risparmia dalla sfiducia con cui sono visti dai giordani. In questa nuova convivenza questi ultimi rivivono parzialmente l’esperienza palestinese, in altre parole temono che come è stato per i palestinesi, anche iracheni e siriani finiscano per stabilirsi qui.
Ma il governo giordano sa bene quale sia il grado di frustrazione collettiva, e quale il senso di abbandono sentito da molti suoi cittadini. Ecco perché, leggendo gli stati d’animo della popolazione, si è stabilito che gli iracheni non sono rifugiati, bensì ospiti temporanei in attesa del loro rientro oppure di un re-insediamento. Oggi in totale vivono in Giordania 750mila iracheni, essi costituiscono il sommerso e oltre il 60% non ha un lavoro, è considerato illegale e di conseguenza non può godere di nessuna protezione sociale.
I siriani invece, sono stati totalmente rimessi all’assistenza delle agenzie Onu per i rifugiati che ne coordinano lo smistamento con l’esercito giordano tra Za’atari, Irbid, Mafraq, Ma’an and Zarqa.
Neutralizzati con questo sistema iracheni e siriani, resta il senso di insicurezza economica che i giordani oggi proiettano sui palestinesi.
Sin dal loro arrivo nella monarchia hashemita i palestinesi hanno creato i presupposti economico-finanziari per lo sviluppo del Paese e ad oggi detengono il monopolio del settore privato, l’unico in continua crescita e promettente grazie alla politica delle liberalizzazioni promossa dal governo giordano (anche per l’incapacità di far decollare la produzione dei servizi, settore che contribuisce all’economia mondiale per il 70%).
Per decenni i palestinesi hanno investito qui le rimesse guadagnate all’estero nei Paesi del Golfo e hanno puntato maggiormente nel settore privato anche in ragione dei limiti imposti loro all’accesso nel pubblico, dominato dai giordani.
Sebbene il modello giordano di accoglienza e d’integrazione si sia distinto da quello del resto dei Paesi dell’area in cui vivono i palestinesi, anche qui il sistema occupazionale è stato quello della divisione del lavoro su base etnica.
E’ con riguardo al potere economico e decisionale acquisito dai palestinesi in Giordania che dalle rispettive posizioni e affiliazioni politiche i giordani oggi esternano nuovi risentimenti. Si dicono insoddisfatti dallo stallo economico, vorrebbero una finanza pubblica di risanamento in grado di ripristinare quello che un tempo era stato un loro privilegio sul posto di lavoro. Oggi si sentono orfani dello Stato in crisi e s’interrogano sulla definizione di patria e di cittadinanza giordana.
Nella prima metà del 2012 i lavoratori giordani hanno protestato pubblicamente 560 volte contro le 484 manifestazioni indette nel corso di tutto il 2011.
La polarizzazione del potere economico fa temere un’emancipazione palestinese nella vita politica della monarchia.
Ecco perché dal campo economico simili timori sfociano nell’arena politica quando si dibatte sul riconoscimento (politico) ai palestinesi presenti nel Paese o quando si mette in discussione la loro titolarità della cittadinanza, comunque parziale.
Dal punto di vista dei giordani, il quadro si complica dal momento in cui forze esterne sostengono questa possibilità e lo scenario si oscura ulteriormente con i piani israeliani di transfer dei palestinesi dalla Cisgiordania verso la Giordania. Politica israeliana questa, che pare aver incontrato la collaborazione del governo giordano per mezzo della concessione ai palestinesi di un’area abitativa ad hoc.
Da un paio di anni a questa parte la convivenza è dibattuta in termini di diritto sociali e civili sul cui campo si esprimono e si risolvono gli attriti. I giordani si appellano a un senso comune in grado di ridefinire l’identità della nazione, di cui non vogliono sentirsi un elemento, bensì il cardine.
Riemerge un sentimento giordano d’identità, ma non nazionalista, e la minaccia della “patria alternativa” lanciata da Israele rincara la dose di timore dei giordani.
In attesa di apprendere quali siano le scelte politiche di Re ‘Abdallah in merito alle riforme costituzionali e pronosticando l’esito delle prossime elezioni parlamentari, i protagonisti di scontenti e proteste pubbliche sono partecipanti attivi, sono oppositori che rifiutano di restare ai margini e tutti sono attenti osservatori dell’opera di governo.
La posta in gioco è alta giacché le prossime scelte del governo giordano riguarderanno il futuro di un Paese che ha costantemente optato per una mera autonomia politica e questo anche in ragione degli eventi storici che ne hanno segnato la composizione, quindi l’identità.
Forse per la prima volta, con tali scelte politiche e in ambito socio-economico, si dovrà essere capaci di rispondere direttamente alle aspettative della composita società giordana; dalle masse all’élite e ai giovani, dai laici ai religiosi, dalle grandi famiglie giordane all’opposizione politica, dai conservatori ai liberali e, soprattutto alle migliaia di profughi la cui presenza è stata decisiva per qualificare il profilo del Regno hashemita.