ARMI, UN AFFARE DI STATO. SOLDI, INTERESSI, SCENARI DI UN BUSINESS MILIARDARIO.
Libro di Duccio Facchini, Michele Sasso, Francesco Vignarca
Editore Chiarelettere, Milano 2012
“Fecero il deserto e lo chiamarono pace” Tacito
Le armi sono da sempre protagoniste della storia mondiale e attualmente della cronaca internazionale. Dalle rivolte nei Paesi del Nord Africa agli assalti dei pirati della Somalia, dal conflitto ancora in corso in Afghanistan all’esplodere della violenza tra bande criminali che ha insanguinato il Messico, dagli scontri fra tribù e fazioni nello Yemen alla feroce contrapposizione e repressione tra regime e rivoltosi in Siria, a discapito della popolazione inerme, dove i poteri assassini irridono gli assassinati. Al centro della scena permangono sempre le armi. Nei discorsi ufficiali e nelle parole di circostanza dei rappresentanti di governo, la pace è evocata come bene supremo da preservare, ma i fatti storici continuano a dimostrare che lo strumento per costruire la pace continua ad essere bellico e militare, dove il sistema impone la corsa agli armamenti come nel caso di Grecia e Libia, con l’uso spregiudicato della psicosi dell’accerchiamento, ossia l’opportuna costruzione del pericolo, più mitico che reale, di un vicino forte e bene armato che garantisca un enorme beneficio all’industria militare, perché diffonde il timore di un conflitto potenziale: questo il grande affare delle armi, dove le spese militari dei governi sono giustificate dalla creazione del nemico e del casus belli. Nei dibattiti e nei confronti con le posizioni cosiddette “pacifiste”, molti governanti si dichiarano contrari alle armi e alla violenza, ma i fatti dimostrano che lo strumento bellico e militare è il più utilizzato per cercare soluzioni alle complicate situazioni di conflitto internazionale. Il business legale delle armi rappresenta un affare di Stato che non avverte crisi: è una macchina capace di divorare a livello mondiale migliaia di miliardi di dollari ogni anno. La costruzione di un nemico esterno da agguantare e distruggere si ripete, anche per distogliere l’attenzione da altri problemi più importanti e reali. Le moderne democrazie non hanno certo perso il vizio della psicosi dell’accerchiamento, del nemico e del casus belli. Nell’era della comunicazione di massa e dell’informazione istantanea, il vizio dell’invenzione del nemico è diventato ancora più sistematico e raffinato: “giocare alla guerra” è il sistema migliore per dissimulare e affrontare questioni scomode, oltre che a rimettere in moto la grande macchina della distruzione e l’enorme sistema di interessi economici soggiacenti alla ricostruzione. Gli Stati Uniti in testa nel finanziare il settore della difesa e poi le nuove potenze militari, dove le armi vivono una crisi molto apparente più che reale, considerando i tagli incompiuti agli armamenti dell’Italia, affare colossale per un pugno di aziende tra cui Finmeccanica, il colosso italiano, una delle più grandi produttrici di armi, un settore troppo ingente e poderoso per fallire, nell’intreccio tra potere, profitto e politica, dove lo stato è sempre cliente ed azionista e la forza politica è sempre al servizio del mercato, tramite la spinta irresistibile del capitale, perché in realtà si ripudia la guerra solo a parole e non nei fatti, basti pensare ai tanto famigerati F-35, i cosiddetti caccia dello spreco, aerei per gli alleati degli Stati Uniti, nelle mani di Washington. La produzione di F-35 è giustificata dal becero inganno iperliberista e dal famigerato ricatto capitalista delle ricadute occupazionali, mentre si aprono sempre nuovi scenari di guerra, perché raccontare le armi significa narrare i conflitti, in epopee di sillogismi di sangue e di mercato, mentre l’Africa brucia, dopo la primavera araba: la Liberia insanguinata di Charles Taylor, il dramma del Darfur, i postumi della guerra in Libia. La guerra presenta sempre lo scotto di gravissimi costi umani ed economici, dove i diritti degli uomini e delle donne vengono violati, calpestati, l’infanzia negata, i civili sotto tiro, sempre, mentre la disoccupazione dilaga, nell’abdicazione dei governi e degli Stati come garanti della sovranità popolare.